Camilla Baresani

Sommario

THOMAS COHEN, Bloom forever

Aprile 2016 - Style - Corriere della Sera - Interviste

Se lo incroci per strada, pensi “quel ragazzo è qualcuno”. Il modo in cui si muove e in cui è vestito rivela una totale mancanza di sforzo nell’essere di tendenza, con una perfetta padronanza dello stile arty e stralunato specifico della scena londinese. Quel “qualcuno” si chiama Thomas Cohen: il suo corpo allungato e sottile da adolescente, tra Tadzio e Bowie, porta splendidamente un gessato marrone monopetto con i pantaloni a zampa d’elefante e i revers alla mafiosa. A Milano, a spasso per la modaiola Corso Como, non si vede nessun altro come lui. Questo venticinquenne londinese è il nuovo sorprendente cantautore sfornato dalla fucina britannica: è un artista dal tono malinconico e al contempo ironico, è un protagonista della Londra mondana, è oltretutto il vedovo di Peaches Geldof, morta di overdose due anni fa, ed è di conseguenza il padre-mammo dei loro due bambini, Astala Dylan Willow di 4 anni e Phaedra Bloom Forever di 3.

Bloom Forever, fiorisci per sempre, è anche il nome del suo conturbante primo album da solista, di cui è imperdibile il video della title track in cui Cohen si dimena in modo serpentesco attorno al filo del microfono, poseur e sornione, sardonico e con l’aria vintage di chi pesca nel meglio degli anni ’70. Il suo album precedente, Again into Eyes, risale a cinque anni fa e l’aveva scritto con gli S.C.U.M., di cui Cohen era il frontman.

In questo suo primo album da solista ha composto prima i testi o la musica?

Di solito scrivo prima la musica, perché aiuta a capire di cosa mi parla la canzone, il suo tono. Con gli S.C.U.M. invece scrivevo solo i testi: la parte vocale è sempre stata la mia specialità. Ma un giorno eravamo a Zurigo per aprire il concerto dei Kills, e la data seguente avrebbe dovuto essere Milano, che però venne disdetta. Così, siamo tornati a Londra in auto, attraversando la Francia e ascoltando tutto il tempo Ennio Morricone. È stato proprio durante quel viaggio che ho deciso di creare melodie che fossero un incrocio tra Morricone e la country music dei ’70. Da allora ho iniziato a scrivere anche la musica. Di fatto, da quel viaggio ho iniziato a lavorare a Bloom Forever.

Come funziona il suo processo creativo?

Direi che è la canzone che viene a cercarmi, non sono io che la cerco. Se provo a sedermi con l’intento di comporla non succede proprio nulla. Invece a un certo punto arriva ed è come se si scrivesse da sola. Molti artisti che amo hanno parlato di questo fenomeno del subconscio creativo, una cosa che non è possibile controllare. Per esempio, in Bloom Forever ci sono canzoni che mi sono arrivate in sogno. Molta della mia musica la scrivo mentalmente prima di prendere sonno.

I testi dell’album sono autobiografici, e parlano anche di cosa sia restare vedovo a 23 anni con due bambini molto piccoli. Lei ha dichiarato che ha deciso di elaborare in musica un lutto che per mesi era stato dato in pasto ai lettori dei tabloid inglesi. Pensa che gli ascoltatori si identificheranno nelle sue canzoni?

Ognuno deve trovarvi il proprio significato. Quello che canto è universale, e Bloom Forever, per esempio, l’ho scritta quando il mio secondo figlio era nato da due giorni e dormiva sul mio petto, in un momento magico in cui quel neonato sembrava perfettamente sveglio e vigile, conscio della bellezza del momento. Scrivendo quello che mi è successo ho cercato una sorta di catarsi, forse anche per ripulirmi dai pettegolezzi dei tabloid.

Per il video di Bloom Forever, affascinante sia per il modo in cui si muove e canta sia per il suo abbigliamento, ha usato un coreografo?

Non ho coreografi né stylist o cose del genere. Per me la visione estetica è una componente molto importante della musica. Alcuni musicisti preferiscono delegare, ma io sarei a disagio, come se mi facessi scrivere le canzoni. La cosa bella dell’essere un musicista solista è proprio che sei tu a creare, non devi mediare né discutere, hai un controllo totale.

C’è qualcosa di lei che ricorda molto David Bowie. Però nella cartella stampa non ho letto il suo nome tra i musicisti che l’hanno influenzata: Van Morrison, Mick Jagger, Jim Sullivan…

Forse perché è un riferimento ovvio. Bowie ha influito moltissimo su di me quando avevo 13 anni e ha cambiato la mia vita in molti modi. È proprio per lui che i miei riferimenti principali sono tra gli anni ’70 e gli ’80. Tra l’altro, sono cresciuto proprio dove è nato lui, a Bromley, e il fatto che fosse del mio stesso quartiere, che avessimo guardato le stesse strade pensando le stesse cose, per esempio come poter lasciare tutto alle nostre spalle, mi ha mostrato che c’era una via di fuga, un mondo intero che mi aspettava là fuori. Musicalmente è un pozzo senza fondo. E poi, negli anni ’90, quando ero un ragazzino, la cultura musicale pop inglese imponeva modelli molto macho, i Blur, gli Oasis; Bowie è stato il primo a farmi capire che non dovevi essere tremendamente virile per essere un musicista uomo. Anzi: mostrando la tua anima femminile potevi essere ancora più interessante

Lei abita solo con i suoi bambini. Li porta all’asilo, gli lava i denti, li veste?

Sì, faccio tutte queste cose. Gli compro anche i vestiti e cerco di tenere in ordine la casa. Quando non ci sono, come oggi o nelle due settimane che ho passato a Reykjavík per registrare il disco, mi aiuta mia madre.

La sua famiglia è di Londra? Che lavoro fanno i suoi genitori?

Mia madre è un’artista, una pittrice e mio padre è assistente sociale, si occupa di ragazzi che, usciti dalla prigione, devono ricostruirsi una vita. Mia sorella studia per diventare massaggiatrice. Ho una famiglia con valori piuttosto tradizionali e ho avuto un’infanzia normale. Solo attorno ai 17 anni la mia vita è cambiata, per via della musica. Le uniche cose insolite cui sono stato esposto da bambino sono l’arte e la musica, con cui mio padre mi ha fatto familiarizzare intorno agli 11, 12 anni.

Lei ha un cognome ebraico importante, che significa “sacerdote” e implica un retaggio cromosomico legato a un alto rango ecclesiale. Essere un Cohen ha influenzato la sua vita?

Se ti chiami Cohen, c’è una stanza speciale cui puoi accedere, indossando uno scialle. Si chiama “Stanza degli Alti Sacerdoti”. L’unica cosa che accade là dentro è che sei al cospetto di una pianta in un vaso. È una situazione assurda! Cohen per me significa Leonard Cohen. È questo il motivo di orgoglio del mio cognome.

È credente? Quando è rimasto vedovo ha pregato?

Credo in Dio come se fosse una sorta di amore profondo che scaturisce dentro di me. Non sono contro la religione, ma non ne seguo nessuna in particolare. Accetto che Dio esista, sento la sua presenza immanente, ma sono sicuro che non ci si debba appellare a lui. Dio non dà risposte.

Nel modo in cui interpreta le sue canzoni c’è sempre una traccia di ironia. È il suo modo di non prendersi troppo sul serio?

Sicuro. È una cosa molto inglese, come se fosse un meccanismo di protezione, elaborazione e difesa. Prendi qualcosa di tragico e alleggeriscilo con l’ironia. Bisogna stare attenti al dosaggio, se si eccede si diventa irritanti. Del resto, lo facevano anche i Beatles: metà di quello che hanno scritto è una specie di commedia.

Ai tempi degli S.C.U.M. lei si dichiarò vegetariano. Lo è ancora?

Sono vegetariano da quando avevo 3 o 4 anni. Un giorno stavo masticando del pollo e ricordo di averlo sentito come qualcosa di estraneo, di cui il mio corpo non aveva bisogno. Da allora mi sono sempre rifiutato di mangiare cibo che non fosse di origine vegetale. Ma due anni fa, il giorno di San Valentino, dopo un litigio, ho pensato che volevo qualcosa di nuovo e stravagante, così sono entrato in un locale, ho guardato il menu e ho ordinato aragosta. Da allora mangio anche il pesce.

Suo suocero, Bob Geldof, ha sempre pensato che la musica debba veicolare dei messaggi e possa rendere il mondo un luogo migliore. Lo pensa anche lei?

Credo che la mia sia una relazione con la musica molto più individuale. La mia generazione è completamente diversa da quella degli anni ’80. Oggi le persone non sembrano aperte a slanci politici e sociali. Devi entrare in ognuno di loro, singolarmente: solo così riesci ad arricchirlo. Non ho messaggi sociali, solo personali.

Frequenta suo suocero? Parlate della sua musica?

Lo frequento perché è una persona che mi piace davvero. Parliamo molto di musica, dato che abbiamo gusti simili, e mi capita di segnalargli mie scoperte del passato, cose di nicchia che lui ha vissuto nel momento in cui accadevano.

Vede ancora i suoi compagni degli S.C.U.M. o la rottura è stata definitiva?

Per un po’ non ci siamo parlati ma ora sono tornati a essere i miei migliori amici e ci parliamo ogni giorno.

Immagino che anche nello scegliere il nome S.C.U.M., feccia, ci fosse la stessa ironia che permea Bloom Forever. Inoltre SCUM è stato il manifesto della femminista fanatica Valerie Solanas, che invocava un mondo privo di uomini e tentò di uccidere Andy Wahrol. Niente male, per una boy band.

Noi maschi dovremmo diventare tutti femministi e lasciarci questa lotta alle spalle. Dobbiamo essere come Justin Trudeau, il presidente canadese, che quest’anno al World Economic Forum ha fatto un discorso stupendo in favore delle donne.

Cosa pensa delle droghe e dell’alcol? Aiutano il professo creativo e la socializzazione?

Penso che l’alcol possa aiutare alcune persone ad avere una vita sociale più distesa, libera. Ma non ha nulla a che vedere col processo creativo. Crederlo è un grande equivoco. Alcol e droghe impediscono di seguire la propria vocazione. Inserisci nel tuo corpo qualcosa che interferisce col processo ideativo, bloccandolo. Capisco chi ne fa uso, ma non lo condivido.

I tabloid l’hanno molto fotografata con Daisy Lowe, una modella che era amica di sua moglie Peaches. Siete fidanzati?

È la mia ragazza, ma non viviamo insieme. Io vivo con i miei figli.

Le piace uscire, fare vita sociale?

Sì, mi piace soprattutto a Londra: si ha la possibilità di incontrare così tanta gente di ogni parte del mondo!

Lei veste con molta ricercatezza, ha stile. Le piace la moda? Lo shopping?

Ho una grande collezione di abiti vintage: sono dieci anni che ne accumulo. Scelgo come vestirmi con molta attenzione. Compro denim americano e abbigliamento militare. Ma soprattutto compro molta sartoria italiana anni ’70, perché, diversamente da quella inglese, presta molta attenzione alla silhouette e alla sensazione che si prova indossando l’abito. A South London, dove vivo, ci sono due stylist di Firenze che hanno un negozio pieno di vestiti italiani anni ’70. L’unico marchio di abbigliamento contemporaneo che amo davvero è il Gucci di Alessandro Michele.

Applica questa sua passione estetica anche all’arredamento della casa?

Adoro la decorazione d’interni. I bambini fanno sempre un gran macello, ma provo ad avere una casa speciale. Non è molto grande, perciò è difficile tenerla in ordine, ma a Londra gli appartamenti costano una montagna di soldi.

Conosce l’Italia?

L’Italia è stata una presenza costante della mia infanzia e della mia adolescenza. I miei mi ci portavano in macchina, e io ho portato i miei figli, ancora piccolissimi, a Firenze. Tra l’altro mangiano solo pastasciutta, è ora di tornare! Una volta ho fatto un viaggio in treno nel nord Italia, e mentre guardavo il paesaggio ascoltavo Leonard Cohen con dedizione, e mi ha rubato il cuore per sempre.

Che genere di musica detesta?

Non amo particolarmente il blues dal vivo. E non sopporto quel suo sottogenere, il rock-blues pomposo.

Chi vorrebbe vedere in prima fila a un suo concerto?

Prossimamente suonerò a Brighton. Mi ha promesso di venire il mio amico Nick Cave, che non è mai stato a un mio concerto. La cosa mi rende un po’ nervoso, ma ci tengo molto.

Chi è la prima persona a cui fa sentire le sue nuove canzoni?

Si chiama Georgia, è una mia ex. È un’artista. A Venezia ha una scuola in cui insegna la tecnica dell’acquaforte.

Quante mail riceve al giorno?

Non lo so, ma ne ho 6417 non lette!