Tutto ebbe inizio nell’Abbazia di Chiaravalle, a un paio d’ore di cammino da Milano: si dice che proprio lì, in uno di quei complessi monastici che sono stati le prime aziende della storia economica occidentale, i monaci cistercensi iniziassero a produrre un formaggio a pasta dura, granulosa, un “formaggio di grana”. Correva l’anno 1135. La storia del Grana Padano comincia così, grazie all’élite produttiva medievale, secoli e secoli prima di diventare un prodotto alimentare attorno alla cui origine e denominazione dibattono gli storici dell’alimentazione e si azzuffano studi legali internazionali; quando ancora non c’era un nome definito, un appellativo DOP e un consorzio di tutela. Oggi, dopo aver conquistato un marchio specifico e tutelato, il Grana Padano è uno dei prodotti italiani più conosciuti (e, ahinoi, tra i più contraffatti), nonché il formaggio DOP più venduto del mondo. Nel 2013 ne sono state prodotte 4.565.337 forme, sviluppando un fatturato di 2.500 milioni di euro, di cui 1.100 milioni all’estero.
Torniamo alle origini del grana, che è il diretto discendente dei formaggi della Gallia Cisalpina, cioè della Pianura Padana. Mentre i romani producevano formaggi freschi, di capra o pecora, il formaggio gallico era di vacca, di pasta dura (da grattugiare), di forma rotonda e di grandi dimensioni. Ne parla nel De re rustica, Lucio Giunio Moderato Columella, celebre agronomo del I secolo dopo Cristo. Ma è attorno all’anno mille che la produzione di grana diviene rilevante. “Sarebbe possibile citare qualche formaggio di pregio che non sia monastico nelle sue origini?” si è chiesto il sociologo belga Lèo Moulin in La Vie quotidienne des religieux au Moyen Âge. Lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, nel suo Il Formaggio con le pere, la storia in un proverbio, sostiene che “in realtà quelle origini sono spesso nulla più di un mito (…): ma i miti stessi sono realtà storica, rispecchiando un sentire comune che, non del tutto gratuitamente, identificò i centri monastici come luoghi di (ri)elaborazione della cultura gastronomica”. Infatti, nel Medioevo il formaggio era ritenuto cibo ignobile, villano, reietto, relegato al consumo dei contadini, che lo producevano per non sprecare eccedenze di latte; e soprattutto veniva consumato con cautela, perché si riteneva che non facesse bene (un po’ come succede oggi a Hollywood, dove la fissazione per la magrezza e la forma fisica lo fa ritenere nocivo e indigeribile). È proprio in quel contesto medievale di scadente immagine del formaggio, che si innesta l’opera di valorizzazione dei monaci benedettini: ne migliorano la produzione, insegnando le tecniche più efficaci a pastori, vaccari e casari. Lo commercializzano e ne introducono il consumo nelle corti, rendendolo un prodotto di consumo elitario. Nel XII secolo il casus vetus (invecchiato) è ormai merce di scambio e pagamento. Dunque, monasteri come avanguardie culinarie: con la loro produzione di qualità, ben più alta di quella ottenuta del singolo contadino, fecero diventare appetibile a palati più esigenti un prodotto ritenuto volgare. Tant’è vero che due secoli più tardi, senza ancora avere idea della corretta dicitura del nome di quel formaggio, persino il Petrarca ne conosceva le doti; lo storico e antropologo Piero Camporesi, nel suo saggio Le vie del latte: dalla Padania alla steppa, riportò le impressioni del poeta: “A Parma, nel Lodigiano, nel Piacentino, «per le grand’abbondanza de ‘l latte che cavano dagli animali del detto paese, fanno le forme di cascio alcuna volta tanto larghe e grosse che risultano per diametro larghe due piedi e mezzo e grosse oltre tre onze, del peso di duecento libre commune». (…) I casari domavano nelle caldaie il liquido riottoso e lo modellavano in sbalorditive ruote commestibili.” Ma tocca aspettare il Cinquecento per leggerne veri e propri elogi scritti “da letterati amanti del paradosso e da signori che ben ne conoscevano la ricchezza dei pascoli e delle mandrie”, come scrivono Massimo Montanari e Alberto Capatti in La cucina italiana, storia di una cultura.
Oggigiorno, tuttavia, non si usa più citare uno dei formaggi blasonati del Made in Italy chiamandolo semplicemente “formaggio grana”. Sarebbe come definire spumante ogni genere di vino bianco frizzante. Per informarci sulle differenze nominali e sostanziali tra i differenti formaggi stagionati prodotti nella pianura padana, i consorzi di tutela hanno finanziato massicce campagne pubblicitarie, e ormai disponiamo di tutte le informazioni per riferirci al Grana Padano senza possibilità di confusione con qualsiasi altro formaggio, compreso il rivale storico, il Parmigiano Reggiano. Una contesa già in atto in pieno Ottocento, al punto che viene citata persino nel Grande dizionario di cucina di Alexandre Dumas padre, pubblicato nel 1872. La differenza sostanziale tra i due formaggi riguarda l’alimentazione delle bovine: quelle destinate alla produzione di Parmigiano si alimentano esclusivamente con foraggi locali, quelle destinate al Grana ruminano anche mangimi concentrati e foraggi insilati. Tutto ciò è stato discusso, pattuito e sottoscritto nell’ambito di una vera e propria alleanza, la Convenzione di Stresa del 1951.
Un simile sforzo normativo, raggiunto dopo guerre, alleanze e tradimenti – proprio come succede tra nazioni confinanti – non dovrebbe lasciar spazio a moderni Palomar calviniani, smarriti davanti a un ipotetico e sterminato scaffale dei formaggi: oggigiorno il consumatore dispone delle informazioni necessarie per scegliere di acquistare il vero Grana Padano, nelle differenti stagionature. Anche per questo è nato, il 18 giugno 1954, il Consorzio di Tutela del Grana Padano, di cui oggi fanno parte 132 caseifici produttori e 156 stagionatori; le aziende che conferiscono il latte sono 4.634, e gli addetti di tutto il comparto 50.000. Il Consorzio vigila sulla produzione e sul commercio del Grana Padano DOP, riconoscimento europeo ottenuto nel 1996, che oggi lo porta a essere uno dei 160 prodotti a Denominazione di Origine Protetta in Italia (47 dei quali sono formaggi). Il Grana Padano si produce esclusivamente con latte crudo, proveniente dalla zona di produzione che si estende su 32 provincie in Lombardia, Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige, Veneto, Piemonte, benché gran parte delle aziende si trovi nell’area di Lodi, Piacenza, Cremona, Mantova e Trento. La lavorazione è regolamentata in ogni aspetto da un disciplinare di produzione; dopo la cottura in caldaie in rame, altre fasi sono la messa in forma, la salatura, l’asciugatura e la stagionatura, da un minimo di 9 a oltre 20 mesi.
Il caratteristico marchio a fuoco viene impresso alle forme dopo nove mesi e solo con il superamento di prove attitudinali: il marchio garantisce la qualità “sana, leale e mercantile”. Nel corso dei secoli la ricetta non è variata granché. Semmai, a essere cambiati sono usi e costumi delle nostre tavole. Cruciale, per esempio, è stata la promozione da mero ingrediente grattugiato a prodotto che basta a se stesso. Nel primo Novecento, alcuni libri di ricette lanciarono anche in Italia la moda di proporre il formaggio tra l’arrosto e il dessert: lo fa, per esempio, quel capolavoro grafico e culturale che è La cucina elegante ovvero il Quattrova illustrato, pubblicato nel 1931, con testi e disegni dell’architetto e artista Tommaso Buzzi, di Gio Ponti e di Piero Gadda Conti, cugino di Carlo Emilio. Un secolo prima, il celebre gastronomo francese Jean-Anthelme Brillat-Savarin aveva coniato una delle frasi più citate dai formaggiofili: “Un dessert senza formaggio è come una bella donna senza un occhio”.
C’è voluto tutto il Novecento per arrivare alle moderne e modaiole degustazioni verticali, in cui vengono assaporate le diverse stagionature commercializzate dal Grana Padano: da 9 a 16 mesi, oltre i 16 mesi, e oltre i 20 mesi per il Grana Padano “Riserva”. Ci sono poi contese di gourmet, volte a stabilire quale anzianità si abbini meglio al momento di consumo (aperitivo, pre-dessert, snack). Anche su questi temi si confrontano quotidianamente i migliaia di foodie (è il termine internazionale che definisce gli appassionati di cibo) che animano i foodblog e i social network, e passano le loro giornate a dibattere di cosa, come e dove bisognerebbe mangiare. Va da sé che perfino gli chef – star della cosiddetta gastrosfera, che dalle loro cucine-laboratorio influenzano le masse e il lifestyle – non siano immuni dal fascino e dalle lusinghe del Grana Padano: il Consorzio è infatti particolarmente attivo nello sponsorizzare eventi e congressi di cucina. Come potete immaginare, in libreria non manca un apposito libro di ricette: Taglio Sartoriale, 28 grandi chef interpretano il Grana Padano (Mondadori). Vi trovate le creazioni dei nomi più elettrizzanti della cucina italiana: Iaccarino, Romito, Beck, Cerea, Scabin, Cracco e molti altri. Un’avanguardia culinaria, certo, che dura da mille anni.