La cucina italiana e la dieta mediterranea sono invenzioni recenti: ancora un secolo fa si moriva di fame, di pellagra causata dall’alimentazione a base di polenta, si moriva di tifo e colera per la cattiva conservazione degli alimenti e perché si beveva acqua sporca, la verdura e la frutta erano il privilegio di pochissimi ricchi, il pesce fresco era a disposizione esclusivamente degli abitanti delle coste e per tutti gli altri non c’erano che acciughe sottosale. La carne era un privilegio, la parte nobile del maiale finiva ai pochi benestanti mentre per gli altri non restavano che orecchie e, ad andar bene, cotiche nei giorni di festa.
Se leggiamo i resoconti dei viaggiatori del Grand Tour ci rendiamo conto che è solo dal dopoguerra, dalla progressiva nascita di una borghesia più diffusa, che si è sviluppata quella che oggi chiamiamo “cucina italiana” e che molti ritengono sia una tradizione secolare.
Come documenta lo storico John Dickie, i turisti inglesi in Italia si vedevano scodellare “ventrigli di corvo con la senape”, “un uovo, una rana e vino cattivo”, “una zuppa che sembrava sciacquatura dei piatti, con pezzi di fegato che ci galleggiavano dentro”. Le descrizioni dei viaggiatori, riportate dai loro diari, sono disgustose.
La pasta cominciò a diffondersi nel meridione a partire dalla fine del Seicento, quando vennero inventati torchi a vite che pressavano l’impasto e lo facevano passare da una trafila. Fu così che nell’arco di un secolo i napoletani si trasformarono da mangiafoglie (di cavolo) in mangiamaccheroni (gli spaghetti). Pasta che però si mangiava scondita. Il pomodoro iniziò a essere usato come condimento solo dalla seconda metà dell’Ottocento, soprattutto quando dalle parti di Parma nacque l’industria conserviera. Prima, importato dall’America Latina, era ritenuto una pianta decorativa. Anche cacao, caffè, peperoncino, carciofi, melanzane e infinite altre piante commestibili che oggi sono parte della cosiddetta dieta mediterranea e dei nostri presidi alimentari arrivano da altre parti del mondo. Adottati nel nostro paese, hanno potuto incontrare con i tempi lunghi della storia e della crescita economica una creatività gastronomica che li ha valorizzati.
Basti pensare che, fino agli anni Trenta del Novecento, la spesa alimentare riguardava almeno un terzo del reddito famigliare. Il cibo costava molto, e non era facile trovarlo. Pochi avevano un frigorifero, e quei frigoriferi non erano in grado di mantenere i 4/6 gradi, come quelli attuali. Per cucinare pesce e carni si usava farcirli d’aglio e prezzemolo per scacciare l’odore della cattiva conservazione.
Questa premessa per dire che in cucina la tradizione non esiste e, se esiste, è meglio dimenticarla. Anche a prescindere dalla reperibilità, freschezza e qualità degli alimenti, le tecniche di cottura erano primitive. Pentole, padelle, griglie, fornelli e forni erano diversi dagli attuali, si tendeva a bruciare o cuocere troppo a lungo carni e pesci, le verdure fino a snervarle.
Oggi le cotture sono brevi per preservare le qualità e la tonicità delle materie prime, e se sono prolungate si fanno a bassa temperatura.
L’evoluzione in cucina è tecnica, è creativa, è dovuta alla disponibilità di sempre nuovi alimenti in arrivo da tutto il mondo, grazie alla velocità dei trasporti, ai nuovi elettrodomestici, alle mode, ai gusti mutevoli, alle migrazioni. Infine, grazie anche ad alcune avanguardie che pongono il problema della sostenibilità etica e ambientale degli alimenti.
Poniamo il caso dell’avocado: il dilagante avocado toast, le insalate con l’avocado, l’avocado come contorno, l’avocado pieno di vitamine, che abbassa il livello di colesterolo, che è contro l’ipertensione e la ritenzione idrica, e forse fa passare pure la cellulite. È tanto entrato nei nostri gusti e nelle nostre diete che non è più un frutto esotico, ma viene coltivato anche in Italia e si trova in ogni supermercato a prezzi accettabili. Ma secondo la Water Footprint Network “per produrre un chilo di avocado servono circa 2mila litri d’acqua”. È insomma un alimento poco sostenibile, almeno sinché non si troverà modo di coltivarlo con sistema idroponico, come già si fa con molti altri vegetali.
Sappiamo che l’inquinamento del nord Italia non è dovuto solo a gas di scarico e riscaldamenti, ma soprattutto alle emissioni degli allevamenti intensivi della pianura padana. Nel sito di Legambiente leggiamo: “In Italia sono ben 330 mila le tonnellate all’anno di ammoniaca gassosa dispersa in atmosfera dal settore agrozootecnico (il 95% di tutte le emissioni di ammoniaca), e di queste l’80% deriva da allevamenti. Lasciare immutati gli adempimenti a carico dei grandi allevatori equivale ad una licenza gratuita per continuare a inquinare senza obblighi e senza controlli, vanificando così gli sforzi per migliorare la qualità di un’aria fin troppo compromessa”. Secondo l’università di Oxford, se analizziamo i cibi venduti al supermercato “utilizzando quattro indicatori ambientali (emissioni di gas serra, uso dell’acqua, uso del suolo, e potenziale di eutrofizzazione acquatica)”, il punteggio di inquinamento più elevato ce l’hanno manzo e agnello. Seguono salumi e formaggi, e a gran distanza noci e frutta secca.
Non basta. Anche i fornelli inquinano, per non dire delle cotture alla brace che sono pure cancerogene. Per salvaguardare salute collettiva e personale, dovremmo sostituire i fuochi a gas con piani cottura a induzione.
Il futuro del mondo del vino è incerto: sempre più investitori comprano terreni in regioni nordiche dove un tempo nessuno avrebbe pensato di impiantare delle vigne. Il cambiamento climatico, le temperature sempre più alte incidono negativamente su qualità e quantità della produzione vitivinicola. Aumentano i parassiti, aumentano periodi di siccità e gelate improvvise, bisogna anticipare le vendemmie.
Finito il tempo in cui a casa cucinavamo la ricetta della nonna ereditata su foglietti infilati in vecchi quaderni impataccati, oggi cuciniamo soprattutto quello che è di moda: la versione semplificata dei piatti dei grandi chef, resa popolare dai cuochi di Instagram, dai tutorial di YouTube, oppure già cucinata e venduta in porzioni sottovuoto al supermercato. Basti pensare al successo dei paccheri mantecati secondo la ricetta dei fratelli Cerea. Quasi nessuno ha potuto assaggiarli nel tristellato ristorante Da Vittorio, ma sui social si inseguono esecutori che spiegano come prepararli. E così con piatti anche molto più complicati però divenuti famosi, “piatti firma” di ristoranti e chef quotati. L’evoluzione del gusto (che è anche conseguenza di battaglie etiche e ambientali) ha per esempio spostato l’enfasi dell’alta cucina lontano da preparazioni e materie prime controverse: chi sente più parlare di foie gras, un tempo caposaldo di ogni ristorante stellato? Accertato che l’allevamento del salmone crea animali grassi, che si nutrono di soia, antibiotici e deiezioni e imbastardiscono la popolazione di salmoni selvatici, quale ristorante di alta cucina propone più il salmone? Negli Stati Uniti, i ricchi salutisti pretendono di mangiare solo carne certificata “Grass Fed”, ottenuta dalla macellazione di animali allevati al pascolo e alimentati solo con erba.
Dobbiamo smettere di considerare la cucina come “tradizione”, come elemento immutabile di un Paese, della sua cultura, della sua identità. Questa tradizione non esiste, è piuttosto un adattamento continuo alla disponibilità di risorse e alle contaminazioni tra gusti, mode, migrazioni. Non c’è dubbio che i nostri menu muteranno, e stanno già mutando in base a realtà climatiche, ambientali e anche etiche. Il ruolo dell’alta cucina, a parte quello di dar gioia e intrattenimento a poche persone dai redditi adeguati, è di tracciare una linea, e lanciare consumi e preparazioni adatti allo spirito dei tempi.