Primi anni Settanta, Venezia. Si gira una videointervista a Giorgio De Chirico, tra una gita in gondola e una passeggiata in Piazza San Marco, con i turisti che fermano il celebre pittore metafisico e chiedono l’autografo. Franco Simongini, l’intervistatore, fa un’ultima domanda: “Dove va adesso Maestro?”. E lui: “Prima andrò al Florian, poi andrò in qualche ristorante”. “Cosa preferisce, i ristoranti veneziani appartati?”, insiste il giornalista. “No, mi piacciono i grandi ristoranti dove si è molto bene serviti con camerieri molto stilizzati, dove si mangia bene in un ambiente elegante. A me le trattorie caratteristiche non mi sono mai andate”.
Alludeva, De Chirico, a quel genere di ristoranti con gran servizio e apparecchiature classiche, il cui cuoco raramente era famoso, che offrivano una cucina di stampo italian-internazionale, con qualche piatto più regionale.
Pochi anni dopo questa intervista, nel 1977, arrivò Gualtiero Marchesi con il suo ristorante milanese in Bonvesin de la Riva e pian piano il mondo dei grandi ristoranti si trasformò, dando sempre più spazio alla personalità dello chef che divenne una vera e propria attrazione, con menu basati su nuove tecniche di cottura, attenzione pittorica alla disposizione degli ingredienti nel piatto, menu creativi, eccetera eccetera.
Quasi cinquant’anni più tardi, la situazione sta nuovamente mutando. Il ristorante del patron o il ristorante dello chef, il ristorante inteso come bottega dell’artigiano di lusso o come PMI, ha bisogno di supporto per sostenere i costi, ottenere visibilità e sviluppo, finanziare nuove aperture. Per qualche tempo questo ruolo di supporto agli chef lo hanno svolto i grandi alberghi, che scambiavano la pubblicità derivante dall’ospitare un ristorante stellato con il sostegno finanziario. Ora, però, su questa forma di pubblicità indiretta hanno messo gli occhi i brand dell’abbigliamento e degli accessori di lusso. Come ha scritto su Il Foglio Fabiana Giacomotti, la moda, che fino al 2019 era “argomento di conversazione onorevole anche in un consesso mediamente intellettuale”, ha perso appeal rispetto ai viaggi, al dove hai mangiato o dove mangiare e come prenotare, mentre i brand del lusso faticano ormai a vendere anche ai ricconi cinesi e giapponesi, un tempo trainanti.
Nel corso del tempo, per promuoversi, la moda si è affidata all’arte, alla musica, allo star system, al cinema, alle battaglie libertarie e delle donne (Chanel e oggi Dior) ma col nuovo secolo sono prepotentemente entrati in gioco il vino, la cucina e l’hotellerie. Ed eccoci agli attuali connubi, come quello che nel 2018 ha legato Moncler a Langosteria. Dopo il primo ristorante fondato nel 2007 da Enrico Buonocore in via Savona, a Milano, grazie al 40% di Moncler, Langosteria ha aperto altri due locali a Milano, per allargarsi poi fino a Sankt Moritz, a Paraggi, a Parigi. E ora toccherà a Londra e Miami, le due nuove imminenti aperture. Nel frattempo, Moncler è entrato anche in Concettina ai Tre Santi, pizzeria napoletana del rione Sanità, nota per la bontà delle pizze che vengono servite ad assaggi, per il livello del conto conseguente a tutti gli assaggi (c’è persino la pizza al caviale), e per la coda perenne davanti all’ingresso, cui si deve sottoporre anche chi ha prenotato. La famiglia Oliva ha così potuto aprire un Concettina anche a Capri. C’è poi il binomio Gucci-Bottura con il ristorante di Firenze (denominato simulando un improbabile low profile “osteria”). Dopo il successo della sede di Piazza della Signoria, sono sbocciati altri Gucci Osteria da Massimo Bottura a Beverly Hills, a Tokyo, a Seoul.
Ti nutri, fai l’esperienza gastronomica e poi magari compri anche qualche accessorio, o comunque fai girare il nome del marchio raccontando ad amici e parenti dove hai mangiato. A Roma, Fendi ospita Zuma, Prada ha puntato sull’antica pasticceria Marchesi, aprendone altre due sedi nel quadrilatero. I Ferragamo hanno investito sul Portrait di Milano, sulle trattorie di lusso del Borro (con la celebre stroncatura del Borro di Mayfair, Londra, ad opera del critico del Guardian, Jay Rainer). Arnault, oltre alla pasticceria Cova di Milano, si è comprato Chez l’Ami Louis di Parigi, un vecchio bistrot strettissimo, arcinoto, sempre affollato e amato dalle celebrities. Caffè e pasticcerie particolarmente raffinate con il marchio LV impresso su dolci messi nelle teche, come fossero gioielli, li troviamo da Parigi a Taormina, agli Hamptons, a Bodrum e naturalmente Saint Tropez.
Accenniamo solo alla moda delle branded beaches, cioè degli stabilimenti balneari rivestiti da una griffe e dotati di pop up store, che puntano a far vivere una un’immersione non acquatica nell’oggettistica del brand, dagli asciugamani a piatti tazzine e tovagliette, fino a vassoi, bicchieri, borse e occhiali da sole (o costumi da bagno, come nel caso del marchio Vilebrequin). Missoni, Dior, Herno, Diesel, D&G: l’accoppiata sole, mare, cibo, acquisti griffati va fortissimo nonostante i prezzi decisamente alti del noleggio di ombrellone e lettino.
Non va sempre bene: Moschino aveva provato il binomio albergo-ristorante brandizzato, in una vecchia stazione ferroviaria di Porta Nuova, a Milano, ma l’investimento è andato gambe all’aria. Dolce&Gabbana, invece, dopo i (ne)fasti del Gold di Milano, hanno riprovato con maggior successo: prima il Bar Martini in corso Venezia (che è anche ristorante), poi brandizzando il Vesta di Leonardo Del Vecchio, a Portofino. Cui si aggiungono con il marchio DG Resort il Casa Amor a Saint Tropez e il Carillon di Portofino. Philippe Plein, nel frattempo, sta per aprire un ristorante nell’ex teatro di Krizia, in via Manin a Milano.