Camilla Baresani

Sommario

Che pollo, quel salmone

Febbraio 2018 - Io Donna - Corriere della Sera - Cibo

Avete presente l’immagine splendida e crudele dell’orso bruno in attesa sul bordo di una rapida, con le fauci spalancate mentre un salmone, che salta verso il cielo nello sforzo di risalire controcorrente, gli piomba esattamente in bocca?  Bene. Scordatevi però che quel salmone sia dello stesso genere del grasso pesce rosa-arancio che finisce nelle vostre bocche, benché siamo soliti chiamarli con lo stesso nome. Non ne ha né la tonicità né il sapore. I pesci che sfamano grizzly e lupi sono della specie salmo salar, così battezzati nel Settecento da Linneo, per via della vita faticosissima, che termina nell’improbo salar, cioè salir. È un viaggio estenuante il loro: inizia nelle acque dolci dove i salmoni nascono in primavera, crescono e prendono forze, finché nella stagione del disgelo scivolano fino al mare, sostando vicino alla costa per cibarsi di crostacei (e dunque le loro carni diventano rosa). Poi, il viaggio prosegue verso il largo, dove si lasciano cullare e tonificare dalle più gelide correnti oceaniche, lontano migliaia di chilometri dai loro fiumi nativi. Infine, arriva il momento fatidico in cui i salmoni, proprio come Ulisse, si fanno cogliere dalla nostalgia (nostos, ossia ritorno, e algos, dolore) e, grazie a questo loro sentimento pescesco di tristezza e rimpianto, dopo tre o quattro anni di abissi marini cercano la strada del ritorno verso casa, guidati dall’olfatto, usato come noi usiamo il geolocalizzatore del telefono.

È un viaggio faticosissimo fino alle acque dolci: solo allora i salmoni cessano di nutrirsi, proprio quando inizia la risalita, aiutata da quei balzi fuor d’acqua anche di tre metri, necessari a percorrere all’inverso rapide e cascate. Se superano la barriera degli orsi famelici e dei pescatori con lenza, eccoli giungere alle loro agognate acque native, dove in pozze basse e ghiaiose danno via al balletto della riproduzione: le femmine depongono le uova di cui erano zeppe, i maschi le fecondano. Poi, gli adulti muoiono di sfinimento una ventina di giorni più tardi, ma le uova si schiudono e via, si ricomincia. Alcuni esemplari, i più resistenti (di solito femmine), nei loro sei anni di vita media riescono a compiere questo viaggio anche due o tre volte.

Torniamo ora al salmone che finisce nelle nostre fauci: anziché un esemplare del genere che vi abbiamo descritto, a noi tocca un salmone frutto di allevamento intensivo, in pratica il pollo del Duemila, un pesce ibridato e inquinante, che cresce in una zuppa di muco ed escrementi creata dall’affollamento delle gabbie, poste perlopiù al largo della Norvegia (è l’industria nazionale), ma anche della Scozia, della Danimarca e di altri paesi dei mari del nord; è salmone nutrito a pastoni e mangimi a base di soia, proteine animali e farmaci, che hanno lo scopo di farlo crescere a tappe forzate: un pesce dunque flaccido e grasso rispetto all’originale, dal colore più roseo e omogeneo, creato così per motivi di appeal commerciale, e dal sapore più slavato rispetto ai salmoni selvaggi. Una specie concepita dall’industria ittica per essere pronta più in fretta possibile ed essere venduta a basso prezzo e finire poi sulle nostre tavole, cruda, cotta, marinata, affumicata. Purtroppo, anche il salmone atlantico selvaggio sta diventando ibridato, perché le popolazioni naturali si sono mischiate con salmoni allevati artificialmente e poi sfuggiti alle gabbie, col risultato che si è creato sia un inquinamento genetico delle specie naturali, sia un inquinamento parassitario: gli allevati hanno contagiato i naturali, provocando epidemie e morìe. Sul salmone e i suoi allevamenti sono insorti gli ecologisti, soprattutto riguardo alla situazione della Norvegia, che è il maggior produttore mondiale: gli allevamenti non tutelano la biodiversità, sono “impattanti” a livello ambientale, hanno provocato la diffusione del pidocchio di mare e, insomma, mangiare salmone sta diventando dal punto di vista etico e salutare ancor peggio che mangiare tonno, almeno questo ci suggeriscono i movimenti ecologisti. In realtà avremmo una scelta: si tratta di decidere se consumare salmone allevato oppure scegliere quello selvaggio dell’Alaska, ben più difficile da trovare in commercio, molto più costoso, e certamente non proposto dal sushi bar sotto casa, o nel piatto misto di crudi di pesce che vi offrono in trattoria. La nostra vita alimentare è ormai permeata dal senso di colpa. Ci piace il tonno ma se continuiamo così si estinguerà. Ci piace la carne ma lo sguardo liquido e indifeso dei vitelli ci strazia, ci piacciono i pomodori e le arance ma li fanno raccogliere a migranti usati come schiavi… Soprattutto ci piace il salmone ma il 90 per cento di quello che mangiamo è allevato e inquinante, e dopo l’influenza aviaria manca solo che ci capiti addosso pure la salmonaria.