Camilla Baresani

Sommario

Noi siamo un popolo di spadellatori

Settembre 2015 - Il Sole 24 Ore - Domenica - Cibo

Sono proprio curiosa di vedere se arriverà il momento in cui dirsi esperti di cibo, parlare di cibo, occuparsi di cibo suonerà come una cosa insopportabile e molesta.

Ci sono stati anni in cui dicevo “faccio la scrittrice” e vedevo sguardi preoccupati come avessi detto “faccio la poetessa” (la solita velleitaria, un peso morto, spero che abbia un piano B). Poi aggiungevo “e scrivo di ristoranti”, e la gente mi sorrideva, mi diceva che era il suo sogno di tutta la vita, ma come hai fatto ad arrivarci! Attualmente la reazione si va modificando: a forza di leggere della somma ricchezza della Rowling, della pericolosa milionarietà di Saviano, degli anticipi di Tom Wolfe, quando dici “faccio lo scrittore” vieni squadrato per percepire le tue potenzialità in relazione alla denuncia dei redditi, e quando aggiungi “scrivo di ristoranti” ti sorridono blandamente e dicono “come fai a mantenerti magro”, ma anche “quando accendo la televisione c’è sempre qualcuno che spadella”; oppure tentano di coinvolgerti in un acceso dibattito contro la cucina tecnoemozionale e molecolare, quella delle schiume e delle sferificazioni.

La richiesta più comune che si fa a uno scrittore è: “Dal momento che scrivo anch’io vorrei che leggesse il mio romanzo autobiografico e mi dicesse cosa ne pensa”. La richiesta più comune che si fa a chi recensisce ristoranti è invece: “Sono anni che la leggo; ricordo ancora la sua stroncatura di x, e quella di y. Farei qualsiasi cosa per poter mangiare con lei: scelga il ristorante”. È la ricerca di un brivido gastronomico che vada al di là di quello che c’è nel piatto, il desiderio di assistere in diretta all’autopsia di un pasto, di un servizio, di un arredo di ristorante. Per poter dire “io c’ero”, una volta uscita quella recensione, che naturalmente ci si augura sia una spietata stroncatura. Difatti l’enfasi sulla cucina produce adepti, giovani seguaci d’umore esaltato, ma di rimando non fa che incrementare il branco degli indignados della cucina, i grillini della ristorazione. Che, va detto, perlopiù se la prendono con gli obiettivi sbagliati. Vorrebbero vedere schizzi di sangue metaforico negli algidi ambienti dei ristoranti più costosi e ricercati, supponendo che un conto da 250 euro significhi guadagni sleali fatti sulla pelle dei gourmet, e trascurano invece di mettere sotto osservazione quei ristoranti di basso o medio livello, sempre pieni, con un gran giro di tavoli, personale in nero nelle cucine e scelta di materie prime scadenti.

Il fenomeno crescente dei gastroindignados, in opposizione ai foodies (magnifico gioco di parole che di solito traduciamo maldestramente con gastrofanatici) non esaurisce le voci in campo. All’elenco va aggiunto il panpsichismo vegetarian-vegano (che attribuisce agli animali capacità cognitive e sentimentali, consapevolezza e coscienza), e il drappello dei salutisti, degli allergici, dei portatori di intolleranze che reclamano locali con menu appositi e negozi di alimenti certificati. Tutti questi attori producono un rumore di fondo simile a quello dei padiglioni delle fiere. A ogni fisima, a ogni passione, a ogni commercio, a ogni sofisticazione, a ogni diritto reclamato e calpestato corrispondono miliardi di caratteri a stampa, di pixel, di megabyte archiviabili su cloud, e l’insieme comincia a produrre sintomi di un’indigestione per ora solo paventata. Ma la passione per il cibo ha solide radici nell’istinto vitale e conviviale degli esseri umani, non è il frutto della decadenza del nostro mondo occidentale: Sant’Agostino riteneva più facile l’astinenza sessuale che la morigeratezza dei consumi alimentari; Alexandre Dumas, non pago di aver scritto un romanzo di cappa e spiedo (I tre moschettieri), chiuse la carriera con Il grande dizionario di cucina; Pellegrino Artusi non era un cuoco bensì un commerciante di tessuti e studioso di letteratura italiana che, appassionato di cibo, scrisse quello che è stato un antecedente degli odierni bestseller, vendendo un milione e mezzo di copie del suo ricettario nei due decenni a cavallo tra fine Ottocento e primi Novecento, quando il tasso di alfabetizzazione era ancora infimo. Assieme a Pinocchio e ai Promessi Sposi La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene – Manuale pratico per le famiglie è stato fino agli anni Ottanta uno dei libri più letti della letteratura nazionale. Tutto, insomma, era già accaduto nei secoli scorsi: i dibattiti sul cibo, la bulimia e le diete, l’anoressia come forma di esaltazione, i successi editoriali dei libri di ricette.

E quando ancora la tivù non era invasa da gente ai fornelli, dato che i canali erano pochi e le ore di programmazione da riempire limitate (i programmi di spadellatori costano poco: basta un piccolo studio), mi capitava di tanto in tanto di finire in ospedale magari per una frattura, o di andare a trovare qualche ammalato. Ricordo che le visite delle famiglie dei vicini di letto si trasformavano regolarmente in interminabili descrizioni di cosa avevano mangiato la domenica precedente, di cosa avevano cucinato, di cosa aveva preparato la cognata. Più queste persone erano intellettualmente e socialmente semplici, più si accanivano a parlare di cibo, persino con dettagli macabri tipo scuoiamenti di conigli e spennature di fagiani, ognuno con le sue valutazioni di qualità, di tecnica esecutiva, di digeribilità di quello che aveva mangiato. D’altronde, nelle famiglie italiane si è sempre parlato moltissimo di cucina, con tremende rivalità suocera-nuora sulla capacità culinaria, sulle ricette, sull’arte di fare la spesa.

Vent’anni fa avevo un fidanzato olandese, che abitava a Milano. Per descrivere gli italiani raccontava sempre come fosse estenuante organizzare un’uscita a cena con un gruppo di amici. Uno poneva il veto su un ristorante perché aveva il pane cattivo, l’altro trovava che la pizza fosse flaccida e il cornicione non abbastanza lievitato, una ragazza sosteneva il polpettone di sua madre fosse infinitamente superiore, e poi c’era qualcuno che criticava il culatello, legnoso, e aveva uno zio che lo produceva e dunque poteva garantire che quello buono fosse diverso… ognuno caldeggiava un proprio locale che agli altri non piaceva, e si finiva per arrivare all’ora in cui le cucine stanno per chiudere, le fatidiche dieci e mezza della sera, senza che ancora ci si fosse messi d’accordo su dove cenare.

Tuttavia il passaggio dalla golosità di massa al gastrofighettismo diffuso ha avuto snodi ben identificabili. C’è stato un ’68 del cibo ed è databile alla fine degli edonistici anni Ottanta, che nel mondo del cibo verranno ricordati per la devastante invenzione delle “insalatone”, lattuga, germogli di soja, becchime dolciastro, gamberini asiatici conservati in salamoia, ovoline a ciliegia; furono anche gli anni dell’apoteosi del carpaccio di manzo con scaglie di grana e rucola. Fino ad allora, nel mondo dei golosi, c’erano stati grosso modo due fronti. Uno, il più numeroso, era quello dell’Italia popolare e popolana, vorace e ghiottona in modo casareccio e protezionistico. Era la trincea conservatrice e resistente delle famiglie, dei pranzi della domenica, delle trattorie e delle osterie dove ogni innovazione tecnica, ogni immissione di nuove pietanze e di sapori sconosciuti era decisamente malvista. L’altro era il fronte minoritario dei gourmet attivi, quelli che si dedicavano a tour gastronomici e non vedevano l’ora di poter sfogare su qualche sparring partner l’orgia di nomi, etichette, dati appresi: erano perlopiù industriali, dentisti, commercialisti, notai, direttori di banca, agenti di borsa. Tutta gente che si poteva permettere di viaggiare con la Michelin in mano e poi discettare delle sublimi esperienze vissute da tri-stellati alsaziani o da Gualtiero Marchesi in Bonvesin de la Riva.

Ma sul finire degli anni Ottanta, un inserto gastronomico del Manifesto, il Gambero Rosso, divenuto in seguito rivista a se stante, e la fondazione dell’Arci Gola, poi divenuto Slow Food, hanno compiuto un’importantissima opera divulgativa, aggiungendo al tema del cibo elementi di carattere culturale (la storia dei consumi e delle produzioni alimentari, la filosofia e l’etica del cibo, i diritti dei contadini e dei coltivatori, l’ecologismo) e una spruzzata di santonismo moderno (la ieratica, monacale, figura di Carlin Petrini, sorta di Dalai Lama nostrano), che hanno democratizzato l’ambiente dei gourmet, allargandone la base e spingendo infiniti cuochi di osterie e trattorie a darsi contenuti innovativi col miraggio di finire sulle guide, e attirare nuovi clienti che li emancipassero dai tiranneggianti clienti fissi del quartiere, di solito tirchissimi.

Con l’invenzione del “cibo sostenibile che salverà il mondo”, alla pura gola si è impresso un timbro salvifico che fa sentire migliori. I bambini colpevolizzati degli anni Sessanta (“finisci quello che hai nel piatto!, mangia la minestra!, pensa ai bambini biafrani che muoiono di fame”) sono diventati adulti golosi e informati che, battendosi “contro l’omologazione dei sapori e per la biodiversità”, sentono di nutrirsi con gusto e nel contempo aiutare le popolazioni svantaggiate, difendendole dalle multinazionali dell’OGM. Con Gambero Rosso e Slow Food il cibo raffinato dei ricchi è stato divulgato e reso alla portata della piccola borghesia. L’immissione di contenuti culturali lo ha reso interessante e non solo gustoso, e non è mancata la componente di fede e tifo, con la confusa religione del “chilometro zero” (confusa perché irrealizzabile, antistorica e antieconomica, e anche perché presupporrebbe che per coerenza deprecassimo l’esportazione dei nostri migliori prodotti agroalimentari, il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano, l’Amarone e il Barolo, la pasta di Gragnano…).

Il completamento della democratizzazione del cibo è arrivato da internet, dall’esplosione dei blog e dei siti di recensioni, dalla fotografia digitale e dai siti di condivisione di immagini. L’avventore-blogger, l’avventore-recensore, l’avventore-fotografo, tutto in una sola persona. Gli scatti geolocalizzati dei piatti provati nei ristoranti o nelle bettole delle località più sperdute, sono l’equivalente odierno delle decalcomanie delle località turistiche sui finestrini dell’auto o sulla valigia, delle targhette dei passi alpini sull’Alpenstock. Per non dire di quanto può rendere orgogliosi testimoniare universalmente, via blog e fotografie, l’esser stati nella cerchia di eletti che hanno mangiato a elBulli prima che chiudesse, aver avuto accesso al Noma di Redzepi, essere stati a cena dal pioniere della nuova commestibilità ecologica, il cuoco delle formiche e dei grilli Alex Atala del D.O.M di San Paolo.

Usando un termine creato da Dwight McDonald nel 1960, potremmo dire che il mondo della gastronomia è diventato midcult: qualcosa che in realtà è masscult ma nasconde con la foglia di fico della cultura le sue basi corrive e alla portata di tutti .

Mario Vargas Llosa ha scritto che siamo entrati nell’era della cultura frivola, e l’ossessione per il tema cibo lo dimostra. Ma se la cultura frivola ci preserva dalle infatuazioni ideologiche e dalle adesioni ai totalitarismi tipiche del secolo scorso, non possiamo che benedirla, e invocare ancora più show cooking, ancora più chef d’avanguardia che compilano decaloghi o manifesti della loro filosofia in cucina (l’hanno fatto Adrià, Redzepi e persino Oldani), ancora più fiere del gusto, ancora più libri di ricette.

Già, i ricettari. Inizialmente erano destinati alle padrone di casa perché spiegassero alle cuoche analfabete come si cucinava, e andavano a integrare certi quadernetti consunti, pieni di ricette, che ci si passava di madre in figlia. Poi sono diventati necessari da quando si sono moltiplicati i ristoranti. Un po’ il desiderio spontaneo di replicare a casa i piatti assaggiati altrove, e un po’ la noia stampata sul volto di mariti che magari a pranzo mangiavano piatti più appetitosi nel ristorantino sotto l’ufficio. Sembra strano che ancora si vendano, quando con uno smartphone puoi scaricare in pochi secondi qualsiasi ricetta e vederla eseguire passo passo su youtube. Eppure il successo dei ricettari non accenna a diminuire. In Italia ne abbiamo sempre comprati molti. Oltre all’Artusi (per lo storico e filologo Piero Camporesi: “La scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi”), Il talismano della felicità di Ada Boni, Il cucchiaio d’argento, Le ricette regionali italiane di Anna Gosetti hanno dai quasi 50 agli oltre 100 anni e non hanno mai smesso di vendere. Diventare così “classici” è un’eccezione nel campo dei manuali, capita solo in quello della letteratura e della saggistica. Ma se questi erano libri di ricette in modo tradizionale (l’Artusi in realtà è una via di mezzo tra un saggio e un ricettario) i temi e gli stili della massa di libri di cucina che si riversa sul mercato contemporaneo sono molto vari: memoir culinari di persone famose in campi diversi dalla cucina; memoir di cuochi; ricette semplici di cuochi complicati; ricette risparmia tempo di fintecasalinghe-veripersonaggitelevisivi; ricette ai tempi della crisi; ricette life style/aspirazionali inapplicabili ma belle; ricette di celebrity e socialite messi a sorridere in copertina mentre altri confezionano il libro. Se tutto è disordine, truffa, accaparramento, i ricettari sono una lettura consolatoria, con le loro regole imprescindibili, la rappresentazione di un mondo bello, ordinato e luminoso. Sfogliarli ha lo stesso effetto calmante della lettura dei gialli positivisti – quelli dei delitti nel vaso veneziano, come li definì Chandler -, con le varie Miss Marple che risolvevano il problema assicurando la scheggia impazzita alla giustizia, e si tornava poi subito a vivere in un mondo di buone maniere e bei manieri.

Steven Pole ha spiritosamente scritto sul Guardian che, per i trentenni, il cibo è il nuovo sesso, droga e religione. Io direi che invece ha preso il posto un tempo occupato dal cinema e dalla moda ed è andato a inserirsi in una casella contigua al design e all’arte contemporanea, pur essendo meno elitario. Ai livelli più alti della gastrosfera, abbiamo archistar e famosi designer che progettano cantine, ristoranti, cucine e stoviglie. Gli chef disegnano piatti, bicchieri, posate, tegami. Ci sono architetti che si occupano di food design e chef (per esempio Massimo Bottura di La Francescana) che collezionano arte contemporanea e compongono piatti in cui distribuzione di materia e colori sono risultato di ambizioni concettuali e artistiche oltreché gastronomiche.

In fin dei conti credo che continueremo a parlare di cibo in tutti i modi possibili, senza che l’argomento passi mai di moda. Neil McGregor, direttore del British Museum e autore della fortunata serie televisiva (poi divenuta uno splendido libro) La storia del mondo in 100 oggetti, ha dichiarato che se dovesse scegliere l’oggetto che può rappresentare il futuro, be’… sarebbe “una guida dei ristoranti di Londra: ritrae tutte le culture gastronomiche che esistono in una città dove oggi si parlano più di 300 lingue  e si mangiano centinaia di pietanze diverse”.