Camilla Baresani

Sommario

Mai più senza kulikuli. È il tempo della cucina africana

8 Agosto 2025 - - Cibo

Proprio come il mondo dell’abbigliamento che, nel susseguirsi delle mode, necessita di una continua innovazione di tessuti, colori, forme, così capita nel mondo della ristorazione. Un tempo i trend si susseguivano con decennale lentezza. La cucina francese è stata al centro dell’immaginario gastronomico per più di un secolo. Poi, attorno al 1970, è arrivata sempre dalla Francia la Nouvelle cuisine, con le sue declinazioni anche italiane, per esempio l’interpretazione di Gualtiero Marchesi. Ed ecco che negli anni Ottanta inizia ad affermarsi la cucina giapponese, poi la panasiatica (la franco-giapponese, la nippo-brasiliana, la thailandese). Al contempo, però, nel mondo comincia a dilagare la moda della nuova cucina italiana, nelle varianti regionali. Incombono gli anni duemila. Tocca ora agli spagnoli, la rivoluzione della cucina molecolare di Ferran Adrià, i cuochi baschi. Passano cinque anni e arriva il boom della cucina New nordic, con René Redzepi e il suo Noma: è il momento di cuochi e ristoranti che fanno del foraging una filosofia culinaria. Tutti nel bosco col cestino a raccogliere funghi, licheni, radici. Ma via, siamo ormai al 2015, dopo quella dei nordici arriva la moda dell’alta cucina peruviana e messicana, è insomma il turno di Gastón Acurio e di altri chef brasiliani, messicani, cileni. Nel frattempo, preme il Medioriente. Yotam Ottolenghi da Israele sbarca a Londra dove apre ristoranti di gran moda, e sforna libri di ricette che diventano best seller mondiali.  

Siamo agli anni Venti del Duemila, è il momento dell’Africa. Non solo sulla scena dell’arte contemporanea, con le straordinarie quotazioni raggiunte da artisti come El Anatsui, William Kentridge Njideka Akunyili Crosby, Julie Mehretu. Ma anche i curatori, come ad esempio Koyo Kouoh, camerunense appena nominata alla direzione artistica del Settore Arti Visive della Biennale di Venezia.

E l’ondata africana è appunto arrivata anche nel fine dining. Al MoSuke, Rive Gauche di Parigi, si prenota con mesi d’anticipo: 9 portate, 195 euro. Molte specialità, in particolare la più ambita è una salsa nera come il carbone, servita su un piatto bianco latte, estratta da un albero delle foreste pluviali del Camerun: l’Afrostyrax lepidophyllus. Dopo la pioggia, tronco, foglie e semi emanano l’odore dell’aglio. Il popolo Bassa, che vive nel sud del Paese, taglia la corteccia a strisce, la brucia, la pressa attraverso un setaccio finché non diventa fine come polvere da sparo. Invece, al Chishuru di Fitzrovia, nel centro di Londra, si assaggia l’eko, una torta nigeriana piena di mais fermentato e immersa in una zuppa di peperoni. Si bevono cocktail con un baccello di okra infilzato sul bordo del bicchiere, e una miscela di vodka e ogogoro, un liquore affumicato distillato dal vino di palma. In Nigeria, all’inizio del Novecento, le autorità coloniali britanniche vietavano l’ogogoro, per costringere la popolazione ad acquistare gin britannico importato. Al Lincoln Center di Manhattan, da Tatiana va per la maggiore un piatto da 86 dollari (da condividere) di pastrami con costolette di suya (in pratica, il barbecue nigeriano), servito con yaji, una miscela di spezie del popolo Hausa, fatta di peperoncino, aglio, zenzero e arachidi tritate.

Tra gli ingredienti più comuni della cucina africana occidentale ci sono gamberi secchi, prekese, granchi, gombo, scotch bonnet, platani, manioca, kulikuli, fagioli dall’occhio nero, baobab, grani del paradiso, foglie di banano, pepe selin, semi di njangsa, yaji, egusi e gari. Sono nomi per noi astrusi ma cui sicuramente ci abitueremo, perché dagli Stati Uniti, dalla Francia, dalla Gran Bretagna, da Dubai arriva questa nuova stagione della cucina africana, non più concepita per far mangiare a poco prezzo gli immigrati, ma volta a creare ristoranti di grande appeal che offrono piatti esotici, a noi sconosciuti, per lo più vegetali, sostenibili, autentici, che riducono l’impatto ambientale: insomma tutte le parole d’ordine della contemporaneità che ha abbandonato il caviale, il foie gras, i filetti, le aragoste, gli scamponi e i gamberoni e tutti gli ingredienti del passato lusso gastronomico. Entrano nei menu del fine dining tradizioni africane antiche combinate con tecniche moderne e presentazioni eleganti. Il teff (un cereale etiope usato per il pane), il fonio (un cereale dell’africa occidentale), il berberè (una miscela di spezie etiope) e il mafé (stufato di arachidi senegalesi).

Va poi aggiunto che nel fine dining la cucina africana non viene intesa solo cibo, ma anche racconto: ogni piatto è una storia, un viaggio, un rituale culturale, e in questo modo l’esperienza gastronomica viene trasformata in un momento immersivo, così come oggi si richiede ai ristoranti e persino ai musei e alle mostre d’arte.