Camilla Baresani
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Noi e Piccole Donne

Gennaio 2020 - Grazia - I miei articoli Recensioni

Non ho mai conosciuto una sola persona che abbia letto Piccole donne senza appassionarsi. Generazioni di ragazze, e persino qualche ragazzo, hanno considerato questo romanzo di formazione americana come fosse un manuale di vita universale, nel senso che si sono identificati con le vicende delle quattro sorelle protagoniste, con la loro voglia di crescere e migliorare, con le delusioni, le ripicche, i rimbrotti, gli slanci, le rinunce causate dalla povertà della loro famiglia. 

Ci si chiede come sia possibile che ancora oggi scatti un così forte meccanismo di identificazione con la storia delle sorelle March, ambientata tra il Natale del 1868 e quello del 1869, ragazze che hanno un padre cappellano, partito per il fronte della guerra di secessione americana. Cosa c’entra quel lontano mondo antico con le nostre vite contemporanee? Sono i miracoli della scrittura. Metti sul piatto (narrativo) ragazze di indole diversa, ognuna con una propria attitudine e carattere, falle amare, appassionarsi, litigare, criticare, falle soffrire di privazioni e però rendile anche generose e piene di sogni, metti la vita e la morte, la malattia e la gioia, e, soprattutto, i sogni di realizzazione. I sogni di realizzazione. Lo ripeto perché è importantissimo. È la molla dell’attualità di questo romanzo scritto per ragazze di fine Ottocento, un secolo in cui le donne non contavano nulla, erano carne da matrimonio e riproduzione – nei casi migliori. Invece, le sorelle March, che hanno un padre con principi educativi liberali abbastanza strambi per l’epoca, non vogliono subire un destino già scritto, sono impegnate a scegliere quello che diventeranno. Chi legge Piccole donne inevitabilmente tende a identificarsi soprattutto in Jo. Io e tutte le mie amiche e colleghe e persino gli amici maschi abbiamo scelto lei, quindicenne irrequieta, coraggiosa, anche rompiscatole, piena di fantasia. Una ragazza che sogna di diventare una grande scrittrice e si ritira nella soffitta di casa dove sbocconcella mele rosse leggendo e scrivendo. Questo genere di desiderio, diventare famosa con i romanzi in cui altri si identificano, è un po’ come volerlo diventare come cantautrice, o persino stilista, insomma il sogno di dedicarsi a sviluppare creatività, talento, empatia e di accendere le emozioni di tanti esseri umani sconosciuti. Invece, ancora oggi, gran parte dei genitori vorrebbe per i figli un futuro tradizionale senza gli alti e bassi e i rischi di fallimento di professioni così artistiche. Ma che noia, un simile destino!, pensavo da bambina, leggendo Piccole donne mentre crescevo a Brescia, al riparo della mia stanza piena di libri e già sognavo di scrivere romanzi appassionanti, coinvolgenti, avventurosi. Non voglio sposarmi, pensavo, non voglio sacrificarmi per la famiglia, come è successo a mia mamma e a mia nonna, che infatti se ne lamentano e mi incoraggiano a crescere cercando anzitutto l’indipendenza economica dagli uomini. Ma nemmeno voglio alzarmi ogni mattina per andare a lavorare in un ufficio, mi dicevo leggendo le storie di Meg, Jo, Beth e Amy. Preferisco cento, mille volte stare sveglia tutta la notte perché sto scrivendo, perché ho un’idea, una storia da raccontare. E difficilmente mi innamorerò di un caro amico che vedo di frequente, (nel romanzo questo ruolo di buon partito innamorato e respinto spetta a Laurie, coetaneo di Jo), non voglio proprio consegnarmi a un marito. 

La realtà e che io e le mie amiche, da adolescenti volevamo al limite perdere temporaneamente la testa per un ragazzo sconosciuto, ma soprattutto sognavamo di essere indipendenti e creative. Proprio come per Jo, era la libertà il nostro fine e per me, come per lei, lo era anche diventare scrittrice, sogno che poi per fortuna, per volontà e per impegno sono riuscita a realizzare. 

Per capire quanta presa possa avere ancora oggi la figura di Jo, leggete questo breve dialogo tra lei e Laurie, il ragazzo bravo, buono e ricco che frequenta casa March:

– Jo, io ti ho amata dal primo giorno che ho posato gli occhi su di te!

– Sarebbe un inferno!

– Jo ti giuro che sarò sempre un santo, avrai l’ultima parola su tutto. Mi prenderò cura di te e della tua famiglia. 

– Non sono abbastanza elegante e raffinata per te, Laurie.

– Io voglio te.

– Ti prego, tu sei il mio amico più caro. Io non potrò mai fare la moglie.

– Lo farai invece. Un giorno incontrerai l’uomo giusto per te. Lo amerai e vivrai per lui, io ti conosco. E preferisco morire piuttosto che stare lì a guardare. 

Che melodrammatico questo Laurie! Anch’io, cara Jo, o cara Louise May Alcott (l’autrice di Piccole donne, una single colta, viaggiatrice, generosa e indipendente), anche io avrei risposto così a quel noioso di Laurie che ti voleva incastrare da subito, ancor prima che partisse la vita che progettavi e che, comportava spostamenti, viaggi, esplorazioni di luoghi e di persone. Infatti, per realizzarsi, Jo dovrà andare a New York. 

Va detto che tutta la letteratura e il cinema americano sono centrifughi. Raccontano protagonisti che, per fare l’attore, la regista, il finanziere, la segretaria, la dirigente, la modella, la scrittrice devono lasciare il Montana o l’Arizona o l’Illinois, insomma la sperduta località dove sono cresciuti e raggiungere le grandi città costiere, New York o Los Angeles o San Francisco, a seconda di qual è il loro sogno. Una volta là, dovranno reinventarsi partendo da se stessi. Dice Jo: “A New York voglio solo fare incontri letterari. E relegare quelli amorosi ai personaggi delle mie storie”. 

Peccato solo che la grande Louise May Alcott, resa insicura dal gran numero di lettere di protesta ricevute da lettrici che non capivano come Jo avesse potuto rifiutare di fidanzarsi con il rassicurante Laurie, abbia poi corretto il tiro narrativo in Piccole donne crescono, facendo sposare Jo con un signore molto più grande di lei, il professor Bhaer, un educatore tedesco ritagliato sulla figura del padre della Alcott e di altri intellettuali americani che lei ammirava.