Camilla Baresani
Autore: Nadia Terranova
Titolo: Gli anni al contrario
Editore: Einaudi
Anno di pubblicazione: 2016
Prezzo: €13,60

Sommario

NADIA TERRANOVA – Gli anni al contrario

Dicembre 2014 - Il Sole 24 Ore - Recensioni

A parte molte meravigliose canzoni, gli anni Settanta non ci hanno lasciato grandi ricordi: intrisi di stupidità distruttiva, ci fecero credere che invece si trattasse di intelligenza eversiva e libertaria. Alcuni dei nostri conoscenti e amici sono morti, altri sono finiti in carcere, altri ancora si sono persi tra Oriente e America Latina. Nadia Terranova, messinese nata nel ’78, per il suo romanzo d’esordio ha curiosamente deciso di raccontare tutto quello che non riempie d’orgoglio chi era ragazzo quando lei nasceva. In Anni al contrario (Einaudi, € 16, in uscita a gennaio 2015), ricostruisce con pienezza di dettagli il decennio dei marxisti-leninisti, degli indiani metropolitani, del collettivo di via dei Volsci, nonché del dilagare e dello sfrangiarsi di formazioni terroristiche spesso del tutto dilettantesche. Senza tralasciare il Roipnol, l’eroina, le comunità di recupero, l’Aids. L’unica delle stupidaggini dell’epoca che viene risparmiata al lettore è quella di Poona e degli arancioni; né vengono citati gli Hare Krishna. Il romanzo, ambientato a Messina, racconta la storia d’amore di due studenti universitari di filosofia, iniziata nel fatidico ’77. Aurora Silini, secondogenita di sei figli, è una ragazza che “non aveva mai giocato alle bambole ma sempre con pupi veri”. Padre direttore del carcere, fascistissimo, veniva lodata dalle suore come alunna modello (“marchiata da lodi tanto antipatiche, Aurora era esclusa dai gruppi e dalle comunelle delle compagne”). Giovanni Santatorre è invece il terzogenito di un avvocato comunista. Ragazzo ribelle e svogliato, al liceo depreca il Pci, inguaribilmente borghese, poi fa a botte con i fascisti, non studia, e si unisce ai marxisti leninisti.

All’inizio, il racconto non tralascia notazioni ironiche, che poi cessano man mano che la storia d’amore di Aurora e Giovanni prosegue con crescenti difficoltà. C’è ritmo e la scrittura è chiara, pulita, priva di quegli svolazzi lessicali cui il cliché folk degli ultimi anni ci ha abituato. Niente dialettismi, niente mafia, niente dolciumi o leziosità culinarie. Finalmente una storia siciliana che potrebbe essere una storia veneta. Ci hanno sempre detto che la televisione ha unificato gli italiani e l’italiano, ma a vedere cosa propone la letteratura corrente vengono dei dubbi: sembra che in Italia non sia mai esistita una borghesia inurbata dal frasario uniforme ma solo tante realtà provinciali o rurali, dove si parlano argot e si vivono vite tra il criminale e il naive.

Aurora e Giovanni sono la classica coppia in cui lei resta subito incinta, e allora ci si sposa, ci si illude e poi, inevitabilmente, delude. I due vivono tutti i cliché della parabola relazionale che abbiamo osservato su di noi e sui nostri amici, e che abbiamo letto nei romanzi e anche nelle lettere agli psicologi dei rotocalchi. Prima che nasca la figlia, partono per Bologna diretti a un convegno contro la repressione, con la stessa baldanza con cui oggi si andrebbe a Panarea per socializzare al Raya. Quando nasce la bambina, Giovanni non c’è: è a manifestare a Comiso. Decidono di chiamarla Mara “come la ragazza di Bube”, dice Aurora, “come Mara Cagol, la moglie morta di Renato Curcio”, dice lui. Da quella differenza d’intenti nell’origine del nome della figlia, inizia il distacco tra i due innamorati, che tardano a laurearsi e vivono a lungo sulle spalle dei genitori. Aurora, benché militante del Partito di Unità Proletaria per il Comunismo (ah, i nomi di allora!), diventa subito una brava mamma e si preoccupa che la bambina cresca senza correre rischi: ingiunge al marito di fumare sul balcone e di non riempire la casa di amici perdigiorno che progettano la rivoluzione, o peggio, che arrivano con la pistola nascosta in valigia. Giovanni invece sogna la Raf, i Nap, Sesto San Giovanni ossia “la Stalingrado italiana”, e però non conclude niente nemmeno in campo sovversivo, se non bere, fumare, essere inaffidabile, improbabile, a volte trombonesco, e finire per mollare i sogni politici e passare a quelli lisergici. Alcuni anni dopo, ormai separati, lei andrà a trovarlo a Milano dove lui, con la scusa di disintossicarsi, si droga a più non posso. Aurora, osservandolo, finirà per constatare che “del suo vecchio sguardo determinato, sicuro, era rimasta solo un’espressione spenta e un po’ scema”; cosa che notano tante mogli abbandonate quando rivedono gli ex, anche senza bisogno che siano diventati tossici: bastano delle venticinquenni. Poco tempo dopo, Aurora non si farà mancare la tipica riflessione recriminatoria femminile: “Tra dieci anni tu potrai dire di aver vissuto, io di aver pagato affitti, bollette e libri scolastici”.

Anni al contrario è un romanzo pudico: niente sesso, niente perfidia (solo inadeguatezza e magari vittimismo), niente scaltrezza. È una cavalcata, anzi una galoppata, nell’atmosfera degli anni che vanno dal ’77 alla caduta del muro di Berlino, inclusa la delusione finale di Aurora, quando viene a sapere che il fondatore dei marxisti-leninisti è diventato un capo ciellino. Un’ambientazione che sarà una scoperta per chi non conosce la storia recente, o invece un ripasso, con molti dettagli narrativi che accendono nei reduci di quegli anni catene di rêverie. Del romanzo si apprezzano sia il ritmo narrativo (10 anni di vita e di storia in 150 pagine) sia la qualità della scrittura, mai maldestra, mentre il registro narrativo finisce per essere, forse per scelta precisa dell’autrice, più sociologico che drammaturgico.