Camilla Baresani
Autore: Gaia Servadio
Titolo: La cucina in valigia
Editore: Neri Pozza
Anno di pubblicazione: 2022
Prezzo:

Sommario

Gaia Servadio – La cucina in valigia

Settembre 2022 - Introduzione - I miei articoli Recensioni

Introduzione

Facile che leggendo questo libro proviate la mia stessa sensazione: il dispiacere di non aver conosciuto e frequentato Gaia Servadio. L’occasione mancata di non aver fatto un viaggio con lei, in Cina o in Medio Oriente o dove la sua famelica curiosità la attirava; il cruccio di non aver mai ricevuto inviti alle cene nella sua casa di Pimlico, a Londra, dove improvvisava menu bizzarri – miscele dei mondi che aveva attraversato -, per offrirle con spontanea generosità a italiani in gita e ad anglosassoni poco avvezzi alla convivialità mediterranea; vi rincrescerete di non averle raccontato qualche vostra pena, magari per sentirla scacciare con un “que sera sera”, e via subito per una nuova avventura, unico modo di curare le disavventure. E tutto questo dispiacere di non aver visto, frequentato, conosciuto nascerà perché quello che state per leggere non è ovviamente un libro di ricette. Ce n’è già tanti, troppi, e di solito sono noiosissimi. Quello che qui troverete è un menu ben più ampio: include viaggi avventurosi, incontri emozionanti – a volte ambigui e pericolosi -, attacchi di fame e sì, certo, ingredienti di fortuna trasformati in piatti commestibili e addirittura appetitosi. Sono, a ben vedere, ricette esistenziali, modi di aprirsi agli esseri umani, ai paesaggi, alle tradizioni e poi di miscelare tutto, per il divertimento proprio e delle persone che si vanno incontrando. Sono storie di voracità culturale, sociale, umana, capitate a una viaggiatrice stupefatta dalla bellezza di paesaggi e reperti archeologici, incuriosita dagli incontri, desiderosa di creare connessioni in cui il cibo, i mercati, le cucine sono elementi di intermediazione culturale.

Come tutte le personalità polifoniche, Gaia Servadio è stata difficile da inquadrare. Basti pensare alle definizioni che le si possono attribuire: pittrice, giornalista per i più importanti quotidiani sia britannici sia italiani, melomane, saggista, narratrice, socialite, documentarista, viaggiatrice, organizzatrice culturale e, infine, persino cuoca. Grazie ai mestieri che si era scelta, inizialmente anche per sfuggire a una certa taccagneria del primo ricchissimo marito, un aristocratico intellettuale che le passava solo poche sterline a settimana, riuscì a intrufolarsi in ogni ambiente, divenendone elemento costitutivo. E così le amicizie con Bernardo Bertolucci, Claudio Abbado, Maurizio Pollini, Alberto Arbasino, Gianni Agnelli, Inge Feltrinelli (una sorta di sorella), e però anche Eric Hobsbawm, Philiph Roth (cui fu proprio lei a far incontrare Primo Levi), Mary McCarthy, Francis Bacon, Vita Sackville-West e infinite altre celebrity internazionali del mondo della musica, della filosofia, dell’arte, dell’archeologia, dei salotti in un elenco che lascia storditi, dispiegato nel suo libro autobiografico “Raccogliamo le vele”.

Torniamo però alle origini: com’è che Gaia Servadio è diventata al centro del mondo, perlomeno di quella porzione di mondo che anche noi possiamo sognare di aver visitato e vissuto?

Tanto per cominciare, possiamo dire che ha fatto tutto da sola.

L’inizio è nel 1934, allorché in una famiglia non propriamente ebrea (solo il papà, Luxardo Servadio lo era, mentre la mamma, Bianca Prinzi, era una gentile), nasce Gaia Cecilia Metella. È secondogenita, la precede Pucci, soprannome di Arria Flaminia Sedula (“poveretta!” scrive Gaia in “Un’infanzia diversa”, il libro in cui racconta come la sua famiglia riuscì fortunosamente a scampare alla deportazione). Il padre era un chimico laureato in fisica, formatosi nel gruppo di Enrico Fermi. Un uomo molto simpatico, giocoso, severo. La famiglia viveva a Padova, faceva le vacanze a Bellaria e Recoaro, era integrata nella borghesia benestante della città. Questo, sinché nel ‘38 Benito Mussolini annuncia le sciagurate leggi razziali. Scrive Gaia: “Insomma eravamo una famiglia normale. Ma in effetti non lo eravamo affatto. Non sapevamo di non essere normali, di non essere come gli altri, perché la nostra vita sembrava in tutto e per tutto come quella delle altre famiglie”. E più avanti: “Improvvisamente mi si chiedeva di capire che ero diversa; io, invece, non lo capivo anche perché non credevo di essere diversa. Ai bambini non piace essere diversi, anzi. Vogliono essere identici a tutti gli altri”. Un giorno del settembre ’43, suona alla porta un poliziotto, fidanzato della tata. È trafelato, li spinge a scappare immediatamente perché le SS hanno chiesto l’elenco degli ebrei di Padova, e la famiglia Servadio ne fa parte. La nonna e la bisnonna paterne, che erano venute a trovarli, decidono di tornare a casa, a Torino. “Siamo due vecchie, ci lasceranno in pace” (e invece verranno deportate ad Auschwitz).

I Servadio cambiano identità: le bambine vengono addestrate a usare il cognome della madre, Prinzi. Il papà da Luxardo diventa Corrado, la sorella da Arria si fa Anna. Si rifugiano a Osimo, nei locali di servizio del palazzo della marchesa Gallo, che li protegge e nasconde. “Eravamo diversi senza volerlo essere e non diversi per eccentricità, ma costretti a pensare di essere tali”. Arriveranno miracolosamente salvi alla fine della guerra.

Racconta Gaia che il padre, come tanti, andrà a Verona ad aspettare i treni che arrivavano dal Brennero e scaricavano “scheletri viventi”. “Quando mio padre incontrò una giovane che aveva conosciuto da ragazza e che era reduce da Auschwitz, lei gli disse: Te ne parlo perché insisti, ma non devi farmi altre domande, non devi chiedere nulla, non devi cercarmi più. Perché io non ricordo nulla, né voglio rammentare nulla”. E la ragazza gli rivela che “sua madre e sua nonna erano state fortunate perché furono mandate alle camere a gas alla prima selezione e morirono poco dopo il loro arrivo”.

I Servadio tornano a Padova avendo perso tutto, in una condizione ben diversa da quella precedente: “Tutto mi imbarazzava, specialmente me stessa”. Per giunta, venivano compianti i morti, persino i fascisti, ma non quelli come suo padre, a cui era stata tolta la dignità, il lavoro, il senso di sé. “Mio padre era così umiliato che non chiese mai alcun compenso che pur gli si doveva per quel lavoro che le leggi razziali gli avevano tolto”.

Poi, la famiglia si trasferirà a Parma, città da cui Gaia, a diciotto anni, fu spedita a Londra per studiare arte figurativa. E lì, da sola, con la sua voglia di non sentirsi più diversa, perlomeno non in senso deteriore, arriverà a diventare l’italiana più famosa d’Inghilterra dopo aver sposato due aristocratici, aver tradito ed essere stata tradita, aver avuto tre figli dal primo marito, scritto una quarantina di libri, collaborato con giornali prestigiosi, ed essere diventata “Commendatore al merito della Repubblica Italiana” (onorificenza cui teneva moltissimo).

Torniamo ora alle pagine che state per leggere che, condite d’ironia, raccontano viaggi ed esperienze culinarie a partire dagli esordi nella vita londinese. Ancora studente, le capiterà di cucinare in case private per mettere da parte qualche soldino, salvo poi, in breve, grazie al matrimonio con Wylliam Mostyn-Owen, approdare ai pranzi a palazzo. Quelli tenuti dalla neocognata, lady in waiting “schiavizzata dalla famiglia reale”, con maiale lesso contornato da spaghetti, e quelli della suocera, con salmoni pescati nel fiume del castello di famiglia e poi bolliti così a lungo da farli diventare color merluzzo. Fa pensare alle raccapriccianti descrizioni di Natalia Ginzburg, a proposito dei piatti serviti in ristoranti e tavole calde londinesi nei primi anni Sessanta.

E poi subito via, con prosa scattante si passa a uno dei tanti viaggi nella Siria “mecca dell’archeologia”. Gaia cucina, procaccia ingredienti di fortuna, inventa o ricrea ricette, il tutto tra scavi, storia delle religioni, dittature, progetti che non si realizzano, notazioni brillanti e curiosità impellenti.

Si mangia o si cucina a Venezia, a Istanbul, in Russia (anzi, Unione Sovietica) ma anche a Londra, dove per Harper’s & Queen Gaia deve visitare 4 o 5 ristoranti al mese, e non alla scoperta di localini sconosciuti, bensì di place to be, luoghi patinati come la rivista che l’ha ingaggiata. E poi in Sicilia: Favignana, Marettimo, Palermo dove scrive per L’Ora, mentre il Telegraph la spedisce a Linosa per intervistare boss mafiosi al confino (e il capitolo che racconta quest’avventura è uno dei più gustosi del libro). L’amore per Stromboli, isola selvatica e ruvida, poco turistica, dove aveva comprato una casetta, e con la sua ricorrente nota ironica conclude: “Poi, con l’arrivo di Dolce & Gabbana e delle meduse, tutto cambiò”. Gaia non aggiunge altro ma immaginiamo la messa in vendita dell’amata casetta.

Con spirito pratico, ovunque vada cucina, prepara, mette in tavola. La sua capacità di fare amicizie e connettere persone e personaggi è stupefacente. E comunque tutto avviene di fretta, la fame, la cucina, gli incontri, a volte con divertenti sbadatezze, tipo preparare una cena per lo storico dell’arte Ernst Gombrich e sua moglie e dimenticare le prescrizioni alimentari della cucina ebraica, servendo capesante gratinate con besciamella: mischione proibitissimo, con l’augusta coppia che rimane a digiuno. E poi il Sinai, reporter nella Guerra dei Sei Giorni: Gaia prepara un picnic per soldati israeliani affamatissimi e di nuovo sbaglia, pane, formaggio e carne salata, tutto tagliato con lo stesso coltello. Cibo buttato, soldati a digiuno.

I viaggi in Cina, tra banchetti e discorsi ufficiali, cucina piccante del Sichuan, cucina imperiale di Pechino, cucina delicata di Shanghai. Stupore per i paesaggi quasi primitivi, per le architetture, per i topi morti venduti al mercato di un villaggetto. Nell’ormai lontano 1982, ci sono persino i famigerati pangolini, che noi abbiamo scoperto ai tempi del Covid, vivi nelle gabbiette e pronti a essere scelti, uccisi e cucinati espressi.

E poi via, in Birmania, con viaggi interminabili e anche pericolosi, soprattutto considerando che era una bella donna sola, col sovrappeso dell’opera omnia di Freud da leggere nei lunghissimi viaggi su treni e corriere, tra alberghi orrendi, spie, cibi che sanno di “glutammato monosodico palelolitico”.

Affamata di tutto, con una vita presa a morsi e sorrisi. Ma perché, con tutta le persone che Gaia Servadio ha incontrato, non è capitato di conoscerla anche a noi?