Camilla Baresani
Autore: Marta Franceschini
Titolo: La valigia di Agafia
Editore: Marlin
Anno di pubblicazione: 2007
Prezzo: € 9,35

Sommario

MARTA FRANCESCHINI – La valigia di Agafia

Maggio 2008 - Il Sole 24 Ore - Domenica - Recensioni

Per quante storie di emigranti possiamo aver letto, non ne abbiamo mai abbastanza. Senza emigrazione non c’è movimento, trasformazione, vera avventura. Se poi il racconto ha uno stile, non è un’affollata e prolissa rievocazione intrisa di zuccherosi patetismi, ci rende lettori ancora più soddisfatti. Succede leggendo La valigia di Agafia, autobiografia di immigrata moldava mediata da scrittrice italiana. Agafia Onuta ha contattato Marta Franceschini, raccontandole la sua storia e consegnandogliene una versione manoscritta, sommariamente tradotta dal russo. Ne è nato un racconto incisivo, veloce, che toglie il fiato non solo per la materia avventurosa e drammatica della storia ma anche per la riuscita nettezza dello stile. Un racconto che non si sa bene come definire, se biografia nuda e cruda (in copertina sotto il titolo è scritto “Una storia vera”), oppure opera di narrativa. Nelle cento pagine del libro c’è materia per scriverne il doppio, e questo ci fa piacere: è raro leggere storie talmente stringenti da lasciar modo al lettore di riempirne gli spazi da sé. Agafia nasce in un villaggio moldavo, tra fango e miseria nera: “La mamma dice che avere una madre è bello, ma essere madre è brutto”. Lavora sin da bambina nei campi di tabacco, in un universo contadino segnato da morte e disgrazia: “I lutti sono più frequenti delle feste, e dato che ogni popolo si arrangia con quello che ha, noi ci impegniamo al massimo con i nostri riti funebri… Si finisce sul lastrico in Moldavia per i funerali. Se chi muore avesse ricevuto quella cifra finché era in vita, probabilmente non sarebbe morto”. Una volta cresciuta, va a cercare lavoro in Siberia, dove si trova a contatto con tanti altri disperati provenienti dai paesi dell’Unione sovietica. Tutta gente in fuga dalla fame, dai propri fantasmi alcolici, dalla galera. Agafia passa sette anni lavorando sui treni siberiani e subisce e vede violenze di ogni genere, ben più pesanti delle condizioni proibitive, tra gelo e zanzare, in cui è costretta a vivere. “Arrivano gli ispettori del Reparto Lotta alle Malversazioni contro la Proprietà Socialista. .. C’è molta severità, ma altrettanta corruzione… Si ruba, si traffica, soprattutto si beve”. Soprattutto colpisce in questa parte del racconto la condizione di somma insicurezza delle donne, ulteriormente acuita dal senso di impunità generato dall’imminente crollo del sistema comunista: “Le donne muoiono come mosche: per un rifiuto, per un sospetto, per uno sguardo di troppo”. Dopo la caduta del regime comunista, le banche nascono e falliscono in una notte, e tutti devono inventarsi un traffico e soprattutto tutelarsi da travolgimenti e fregature: “Mi sento come un pallone da calcio in campo, rotolo e sobbalzo, e non so da che parte arriverà il prossimo colpo”. Agafia s’inventa un traffico di guanti con la Romania, poi il rublo crolla e i suoi risparmi si dissolvono. Decide di consegnare quel poco che le resta a un trafficante che la faccia arrivare in Italia. Qui la sua via crucis si fa più familiare, è ogni giorno sui nostri giornali: il viaggio angosciante e rischioso, l’arrivo a Roma da clandestina senza sapere una parola di italiano, la ricerca di un posto da badante, i parchi come luogo di ritrovo e di scambio di informazioni, la notte nelle stazioni, il non ricordare l’ultima volta in cui s’è dormito su un materasso, le violenze tra immigrati. Con brevi e amari quadretti sulle famiglie dove Agafia trova lavoro e sulle situazioni in cui viene a trovarsi: la tirchiaggine e la tirannia dei vecchi cui fa da badante; il non saper che fare di fronte a oggetti sconosciuti come la lavatrice, l’ammorbidente, il forno a microonde; il senso di isolamento. Nello svolgersi della narrazione è d’intralcio la parte scritta in corsivo, che interrompe il filo con frammenti della storia d’amore e menzogne tra Agafia e un uomo italiano. Tanto è asciutto e felice il racconto principale, quanto questa parte di corredo inciampa in metafore poetizzanti, quasi fosse scritta da una mano diversa. Ma è appunto un dettaglio, in un racconto di grande attualità e cui non manca la forza e la materia delle migliori narrazioni.