Camilla Baresani

Sommario

Ego e tatuaggi

Settembre 2013 - Io Donna - Corriere della Sera - Storie

Un tempo, quando ancora andava di moda la psicoanalisi, i più noiosi ti affliggevano col racconto dei loro sogni. L’enfasi su quella scienza aveva prodotto una categoria umana di persone preoccupate di spiegare e spiegarsi tramite la parte onirica dell’esistenza. Circolavano una quantità di manuali fai-da-te che assegnavano un’interpetazione alle immagini dei sogni, spesso con comica immediatezza: cavalli al galoppo = voglia di vivere. E così capitava di subire descrizioni lunghe e slabbrate, con annesso tentativo di spiegazione del sogno. Non erano solo i conoscenti a molestarti: per anni anche i film e i romanzi sono zavorrati con materiale onirico. Dal surrealismo in poi, ogni sogno era buono per l’artista e soporifero per il lettore/spettatore. Col risultato che appena sentivamo la fatidica frase “Sai cosa ho sognato questa notte?” ce la davamo a gambe levate.

Oggigiorno sono subentrati i raccontatori di tatuaggi. Quando tra i conoscenti se ne affaccia uno con la maglia strategicamente scivolata sul cardellino inciso sulla spalla, o la polo con manica che termina prima di un filo spinato che si intreccia sul bicipite, scaltrezza vuole che ci si allontani alla chetichella. Non sia mai ci piombasse tra capo e collo la descrizione del tatuaggio, che è simbolica, artistica, esperienziale, storica, psicologica e anche dolorifica, giacché di solito non vengono risparmiati nemmeno i dettagli sul dolore patito e le eventuali infezioni occorse durante le sedute di incisione. Non mancano le fasi della ricerca di un tatuatore di fiducia, sempre perigliosa e piena di passi falsi.

La spiegazione del tatuaggio è indubbiamente la nuova spiegazione dei sogni.

“Dei tatuaggi non si parla. Esistono proprio per dire cose che non possono essere dette con le parole,” ha scritto Nicolai Lilin. Non se ne parla, però Lilin gli ha dedicato un libro (Storie sulla pelle) e molte interviste. Del resto, sono parecchi gli scrittori che, non bastandogli la carta, hanno proseguito la scrittura sul proprio corpo. A parte Lilin, che è anche un tatuatore professionista, hanno un tatuaggio su porzioni del corpo visibili Sandro Veronesi (un NO sul polso, che si può leggere anche ON), Roberto Saviano e Silvia Avallone. Un libro di Kim Addonizio e Cheryl Dumesnil, Il gomito di Dorothy Parker. Scrittori e tatuaggi (Dalai editore, 2005) elenca una serie di autori-celebrity che “hanno voluto confrontare la loro penna con l’ago del tatuatore”.

Di recente ho letto la teoria di una psicoanalista inglese: tatuare il proprio corpo, e dunque sporcarlo, è un modo per appropriarsene strappandolo alle grinfie materne. Quale peggiore shock per una mamma orgogliosa del suo bel figlio, liscio e roseo, partorito, allattato, nutrito? A partire dal primo tatuaggio, quel corpo cessa di essere suo, diventa di chi lo porta in giro e se lo reinventa. Se questa interpretazione fosse corretta, potremmo dire che c’è un buon 30% di europei tra i 18 e i 30 anni che, dovendo pur trovare una ragione di conflitto con genitori sempre più accondiscendenti, si è buttata sui tatuaggi.

Curioso notare come questo fenomeno sociale finisca per datare i corpi, così come un tempo facevano pandemie e guerre. Per esempio la gotta è stata una malattia sociale che fa pensare al ‘700 e all’800 inglese, la poliomelite ha segnato i corpi del ‘900, così come il bollo della vaccinazione anti-vaiolo, ormai assente dagli avambracci. Ora, quasi debellate le grandi malattie sociali, ci sono invece le modifiche autoinflitte: l’eccesso di pesi in palestra, i seni e le labbra innaturalmente gonfi, le depilazioni totali, i tatuaggi di massa. Qualche tempo fa mi è capitato di vedere Lorenzo Lavia in Colazione da Tiffany a teatro: il busto tatuato lo rendeva poco credibile nella parte di un timido aspirante scrittore di metà ‘900, approdato a New York dal Midwest.

Infine va detto che il tatuaggio è diventato come il matrimonio: tutti lo vogliono perché è per sempre, per quanto più nessuno possa sinceramente credere nel “per sempre”. Se sei senza gambe ti metti le protesi e vinci le Olimpiadi, se ti sposi c’è il divorzio, se ti tatui poi ti cancelli.

Si potrebbe anzi dire che al fenomeno sociale dei tatuaggi ne consegua uno economico. Pensate all’occupazione che creano: negli ultimi tre anni in Italia sono triplicate le licenze di tatuatore, così come c’è stato un boom dell’attività simbiotica e parallela, quella di tecnico del laser che sbianchetta la pelle del crescente numero di pentiti.