Camilla Baresani

Sommario

La guerra alle donne

Maggio 2012 - Io Donna - Corriere della Sera - Storie
Ci sono periodi in cui pare che l’Italia sia popolata da cani feroci che sbranano un bambino al giorno, oppure che ci sia un’epidemia influenzale che fa strage più di una guerra, o che il caldo assassino uccida vecchietti quanto il cancro e l’infarto. È il giornalismo pigro, la tendenza facilona a enfatizzare notizie che emulano quella diventata di moda in quel momento. Poi le segnalazioni finiscono e, per mesi, anni, nessuno più muore di pit bull, di influenza, di canicola. Ma di una cosa invece potete star certi: che se ne parli o no, di maschio violento le donne muoiono, spiritualmente e fisicamente, tutto l’anno, in ogni anno, ovunque nel mondo. La violenza sulle donne è una malattia endemica della società, nei paesi cosiddetti civili e in quelli ritenuti incivili. La rabbia del maschio rifiutato, del maschio insicuro, del maschio sospettoso, del maschio ubriaco, del maschio geloso, del maschio prepotente, del maschio complessato, del maschio depresso, del maschio che ha perso il lavoro… qualunque sia il problema, troppo spesso la risposta è: la minaccio, la picchio, la violento, la uccido. Sono davvero poche le donne che non hanno mai avuto paura: è capitato a tutte di dover subire o scappare, di doversi difendere. Non c’è bisogno di essere una prostituta nigeriana in balia di una gang di schiavisti o una poveretta senza autonomia economica che subisce anni di tormenti perché ha fatto i figli con l’uomo sbagliato: il gesto minaccioso, l’uomo che si irrita perché a un certo punto delle schermaglie erotiche non ti va più e ti vuoi sottrarre, la fermata isolata del metrò, lo sconosciuto nell’androne, l’ex fidanzato che non si fa una ragione di essere stato lasciato… nella vita di una donna c’è sempre, sempre, il momento del panico.
Come tutti sappiamo, la sicurezza, cioè la mancanza di paura, è il principale indicatore di qualità della vita. Puoi essere ricco quanto vuoi, bello e sano, abitare davanti al mare, ma se devi vivere blindato per l’assedio della criminalità, be’, nessuno ti invidia. Il sogno più comune degli esseri umani è quello di una vita non asserragliata. Immaginate dunque cosa sia la vita di una donna, una vita che non è mai al sicuro, perché sin da piccola ti insegnano a temere come minimo uno stupro. In Italia le donne che denunciano una violenza sono solo il 4% di quelle che la subiscono. Comprensibile, visto che la legge non ci aiuta a sufficienza. Spesso, anzi, ci espone: alla riprovazione, a stupidi giudizi morali, a insulti e insinuazioni. Le donne, sostanzialmente, non credono nella giustizia perché troppo spesso è una giustizia amministrata, gestita, impartita da maschi, ed è dunque una giustizia di parte. Del resto, fosse stato solo per gli uomini, non si sarebbe mai arrivati al pur blando inasprimento di pene per il reato di stupro, o alla definizione di reato di stalking. Nessuno si occupa dei diritti delle donne, se non sono loro stesse a farlo.
Al genere di violenze che va dalle botte, allo stupro, all’omicidio – passando per la schiavitù delle prostitute, per l’acido con cui gli uomini del Bangladesh sfregiano le donne, per i roghi con cui vengono punite in India le mogli dalla dote insufficiente -, va ovviamente aggiunta la “selezione innaturale” dell’aborto, praticata in Cina, in India, in Corea. Un’inchiesta dell’Economist parlava di 100 milioni di bambine morte tra mancata nascita, infanticidio, minori cure e minore alimentazione. Bambine non diventate donne, la cui voce, il cui peso sociale e politico, manca all’appello.
Ma tornando al nostro beato mondo occidentale, la mia idea è che, certo, bisogna lavorare per modificare le leggi, ma soprattutto bisogna lavorare sulla famiglia, che è la principale incubatrice delle violenza sulle donne. “Datemi dei genitori migliori e vi darò un mondo migliore” è il celebre assioma di Aldous Huxley. A questo punto direi che tocca a noi intervenire, alle madri, alle zie, alle insegnanti. Se persino nei paesi ritenuti più socialmente avanzati, per esempio in Svezia, i maschi dopo aver bevuto picchiano e stuprano e uccidono le femmine, vuol dire che nella mentalità maschile c’è qualcosa che va educato sin dalla più tenera infanzia. Bisogna insegnare ad accettare il fallimento, a rispettare la vita, a non prevaricare. Le madri devono smettere di ergersi a protettrici del figlio maschio contro quella stronza della fidanzata, della nuora, della ragazza che l’ha provocato girando in minigonna, restando incinta e poi andandosene con un altro. Appare evidente come dietro molti dei maschi assassini della moglie ci sia una madre che non ha fatto il proprio dovere di donna. Ci sono mamme cerbere che si ergono a custodi della “tradizione”, parola detestabile perché sulla scorta di questo concetto passano le peggiori usanze contrarie ai diritti delle donne. È tradizione il velo, la mutilazione genitale, la donna custode della virtù, la suora col capo coperto che non può dir messa. Per una donna, “tradizione” è la morte civile. Molto meglio parole come “ricordo”, “memoria”, cioè la tradizione filtrata da una contemporaneità che stiamo cercando di piegare al nostro diritto di una vita piena, e senza paura.