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The Abramovic Method – Reportage dalla performance del PAC

Marzo 2012 - Io Donna - Corriere della Sera - Storie
Ho il prezioso “Certificate of completion” che viene rilasciato da Marina Abramovic, “creator of the Abramovic Method”, e che attesta, con tanto di autografo, la mia attiva partecipazione alla performance che si è svolta il 19 marzo 2012 al PAC di Milano.
Eccovi dunque un breve reportage-testimonianza dall’interno del Metodo. Anzitutto, per chi fosse abituato a una Marina Abramovic che si taglia, si frusta, fa la roulette russa, e comunque esercita ogni pratica estrema contro se stessa, per sperimentare in pubblico il punto di resistenza del proprio corpo… be’, questa volta non succede nulla di tutto ciò. Marina Abramovic ha un camice bianco da dottoressa sexy, è molto ben truccata e pettinata, e con voce profonda e avvolgente spiega ai 21 “performanti” (tra cui Fabio Novembre e Victoria Cabello) l’abc del Metodo. In pratica, dobbiamo cercare la concentrazione e trovare almeno un po’ della nostra bistrattata interiorità astraendoci da tutto, pur nell’interazione col rumoreggiante drappello di spettatori accorsi per osservare da vicino Marina e i performanti. La prima fase prevede la presentazione del significato e delle modalità del Metodo. Marina è affiancata da un interprete italiano, il quale capisce con qualche incertezza il suo inglese molto chiaro, e deve dunque farsi ripetere le frasi. Il microfono funziona male, la voce della Abramovic è continuamente disturbata da scariche, proprio mentre spiega l’importanza del relax e della concentrazione – e questo, ovviamente, la innervosisce. Noi 21, che indossiamo il camice e siamo seduti su comode sdraio, proviamo un certo imbarazzo: ci sentiamo colpevoli di questi intralci tipici delle barzellette sugli italiani, dal traduttore che sa l’inglese meno di noi ai guai della tecnologia. Poi Marina passa la parola a due assistenti, che rinunciano al microfono e ci fanno fare qualche esercizio di blanda ginnastica – torsioni del busto e del capo, frizioni, allungamenti. Alle nostre spalle rumoreggia sempre di più la massa del pubblico, che ci osserva senza rinunciare a chiacchiere e saluti (è una première e molti si conoscono).
Finita la ginnastica, molto simile a quella che sulle navi da crociera si fa praticare ai pensionati con l’artrosi, il gruppo viene diviso. Alcuni di noi vanno a sdraiarsi su tavoli di legno sovrastanti un non meglio identificato minerale; sono tavoli assai comodi e dotati di cuscino per il capo, quindi molti finiranno per appisolarsi. Altri vengono fatti sedere su sedie particolari: alcune hanno le gambe piantate su minerali, altre hanno i minerali come poggiatesta, altre ancora li hanno conficcati nello schienale. I rimanenti devono stare in piedi dentro una sorta di baldacchino da controllo di sicurezza aeroportuale. Tutti indossiamo cuffie molto aderenti, che dovrebbero isolarci dal brusio degli spettatori. Dobbiamo inoltre tenere gli occhi chiusi. Le tre posizioni – sdraiato, seduto, in piedi – toccheranno a rotazione a ognuno di noi, per una durata di 30/40 minuti ciascuna. Obiettivamente, astrarsi è difficile: nonostante l’isolamento delle cuffie, si sentono le chiacchiere del pubblico e i clic delle macchine fotografiche, il che fa temere di avere assunto posizioni o espressioni poco appropriate e di trovarsi il giorno dopo postati su un social network. Ogni tanto si cede alla tentazione di aprire gli occhi, per dare un’occhiata a chi ci guarda e ci fotografa. A me è capitato nei 40 minuti in piedi, e mi sono trovata di fronte lo sguardo severo e accigliato di un noto giornalista. Li ho subito richiusi, spaventata.
Nelle posizioni sdraiata e seduta sono riuscita parzialmente a rilassarmi e a concentrarmi come non mi capitava da anni: l’impossibilità di consultare un telefono o un computer, o di vedere una ragnatela o una crepa nel soffitto, mi ha permesso di immedesimarmi nella vita della protagonista del romanzo che sto scrivendo, per prevederne le mosse che ancora non ero riuscita a immaginare. Nella posizione in piedi, invece, ero scomoda e continuavo a chiedermi quanto mancasse alla fine. Oltretutto la presenza del pubblico a un metro da me era così corposa e rumorosa che facevo fatica a non sentirmi pericolosamente osservata. Tuttavia, per farmi forza, ho pensato a quante volte ero stata per ore sui due piedi a certe feste, magari anche con piatto e bicchiere in mano, e vestita inutilmente sexy, coi tacchi, ascoltando e pronunciando vuote battute da cocktail party. Non c’è dubbio: meglio il Metodo, con gli occhi chiusi, il camice e le cuffie in testa.
Infine, ultimate le tre fasi, siamo tornati alle sdraio, e ci è stato consegnato un blocco su cui riportare le nostre impressioni. Conoscendo l’aspetto prolisso della natura umana alle prese con la scrittura, ho temuto per chi un domani dovesse decrittare le calligrafie dei performanti e magari utilizzarle per un libro sul Metodo. In quel momento è tornata in scena Marina Abramovic, che ci ha consegnato il certificato di partecipazione e ci ha salutato affettuosamente.
Alla fine mi restano un paio di dubbi: la presenza delle pietre, anzi dei minerali, ha avuto un benefico influsso, come previsto dal Metodo? Io non me ne sono accorta, ma potrebbe essere. E poi un dubbio più prosaico: cosa faccio col certificato? Lo appendo in studio, vicino al computer? Lo aggiungo al curriculum postato su Linkedin (chissà che qualcuno rimanga impressionato e non mi offra un lavoro ben retribuito)? Intanto lo guardo e cerco di trarre ispirazione. Per uno scrittore la vita non è altro che un susseguirsi di materiale narrativo.