Camilla Baresani

Sommario

I cinque sensi

Giugno 2006 - l'Erasmo - Storie

I sensi slittati di uno scrittore di oggi
La storia si può raccontare in tanti modi, con un taglio economico, militare, politico, sociale, di costume… Anche la storia dell’evoluzione del gusto è un modo di osservare come la società si sia modificata nel corso dei secoli. Paradossalmente poi, il ‘gusto’ è uno dei cinque sensi, il cui significato, per metonimia, è andato a riassumere un’attitudine che dal palato si estende all’intelletto, alla cultura, alla sensibilità dell’individuo. Da sensazione concreta si fa astratta, e definisce mode e stili che hanno accompagnato il percorso dell’umanità. Il gusto, inteso appunto come elaborazione intellettuale individuale o collettiva delle percezioni, presuppone che gli uomini abbiano vivo e funzionale almeno uno dei cinque sensi: vista, udito, olfatto, gusto, tatto.
Il fatto di esprimere gusti e disgusti caratterizza e racconta la vita delle persone (e persino degli animali), ed è la principale materia cui attingono gli scrittori, che sono perciò assai sensibili agli slittamenti cui il contesto storico e sociale espone le sensazioni. Prendiamo, per cominciare, proprio il gusto nella sua accezione più elementare, quella legata alle impressioni del palato. Se uno scrittore racconta una storia che si svolge attorno al 1950, nel dopoguerra, nella casa di una famiglia borghese, dovrà arricchirla con elementi e dettagli di vita concreta, che diano veridicità alla narrazione, che facciano precipitare il lettore nelle pagine del libro astraendolo dalla propria vita corrente. Per ottenere quest’effetto, di solito sono fondamentali gli elementi legati ai sensi.
La nostra famiglia borghese potrà dunque, nel racconto, sedersi a tavola, e il figlio adolescente racconterà una bugia ai genitori che, distratti dai sapori forti della pietanza servita da una domestica che è anche cuoca, crederanno alle zoppicanti giustificazioni del ragazzo. Negli anni Cinquanta il palato del padre gradiva pasti sostanziosi, sapori forti, e non aveva paura del pepe, né del burro, né dello zucchero; la frutta e la verdura, che sua moglie sceglieva perché venisse messa in tavola, avevano sapori diversi, più decisi, nel bene e nel male: un frutto aspro era anche duro, andava masticato con decisione, e uno dolce non era necessariamente troppo maturo, sfatto, come capita ora. Oggi invece la stessa famiglia borghese inorridirebbe di fronte alla sensazione untuosa della mantecatura di un risotto o del condimento di una scaloppina, e la bugia del ragazzino sarebbe magari accompagnata dallo sgranocchiare la verdura cruda del pinzimonio (soprattutto carote) e da una sogliola al vapore, ché padre madre e figlia preadolescente sarebbero fatalmente a dieta. Negli anni Cinquanta, in tavola ci sarebbe stata acqua del rubinetto e vino sfuso, un po’ acidulo, comprato dal mezzadro di un cugino; oggi sul desco di quella stessa famiglia troveremmo dell’acqua minerale lievemente frizzante e una bottiglia di vino DOCG, né aspro né acidulo ma odoroso di legni e di boschi.
La descrizione dei cibi e del loro stato di conservazione, dei sapori, delle consistenze mi fa subito pensare a Balzac e alle splendide pagine di Le illusioni perdute, in cui racconta il ristorante Flicoteaux del Quartiere latino, «tempio della fame e della miseria», dove «ogni cosa è in rapporto con le vicissitudini dell’agricoltura e i capricci delle stagioni francesi. Vi si apprendono cose di cui i ricchi, gli oziosi, gli indifferenti alle fasi della natura non sospettano nemmeno l’esistenza. Lo studente che vive nel Quartiere latino vi acquista la più esatta conoscenza del tempo, sa quando i fagioli e i piselli hanno una buona annata, quando sul mercato c’è dovizia di cavoli, quale specie di insalata vi abbonda e se la barbabietola è andata male. Una vecchia calunnia consisteva nell’attribuire l’apparizione delle bistecche a qualche moria di cavalli». Quale modo migliore di percepire la realtà della vita degli studenti e dei nullafacenti squattrinati di Parigi, nei primi decenni dell’Ottocento?
Scivolando sul gusto, quindi sui sapori di ieri e di oggi, si arriva direttamente agli odori. Ce ne sono di nuovi e di datati. Sebastiano Vassalli, nel romanzo La chimera, racconta con grande vividezza Novara e dintorni ai tempi dell’Inquisizione: al lettore non sono risparmiati odori e putrescenze, quelle puzze di corpi e abiti non lavati, di fogne a cielo aperto, di aliti tremendi dovuti a dentature marce e a cibi maldigeriti. Oggi le puzze sono spesso, nel nostro mondo occidentale, i cosiddetti profumi. Camminando per i centri delle città si viene investiti dall’odore fastidioso di negozi che vendono candele profumate o boutiques di abiti etnici che sanno d’incenso e tinture vegetali; da profumi per ambienti che invadono i marciapiedi e da profumi per il corpo e i capelli che seguono come una scia uomini e donne. D’estate, la sera, l’odore di citronella e zampirone è dappertutto, come le zaffate degli scarichi dei motorini. E uno scrittore che si accingesse a raccontare un uomo mentre esce dalla stazione di una capitale europea e si avvia a piedi verso il centro, non potrebbe esimersi dal descriverne le narici alle prese col forte odore di kebab, tipicamente in vendita nei dintorni di ogni stazione. Dal punto di vista delle narici, un italiano in un ristorante americano si sente paradossalmente come a casa, mentre chiuso in un ristorante parigino soffre la coltre di fumo cui non è più abituato.
Uno scrittore, dunque, fa il suo mestiere se coglie questi dettagli di percezione sensoriale e li racconta. Deve notare, e mettere in scena nei padiglioni auricolari dei suoi personaggi, l’onnipresenza delle telecomunicazioni, tra cui includiamo non solo l’esplosione invadente delle conversazioni telefoniche ma anche quella di radio, televisione e riproduttori di suoni e immagini. Persino chi si isola, e si crea un buen retiro lontano dal chiasso del traffico e dell’umanità accalcata, difficilmente sfugge alla suoneria di un telefono, o allo scoppio di rumore improvviso di un’inserzione pubblicitaria durante un dibattito televisivo improntato a toni moderati. Vivere di soli suoni della natura è possibile, ma ha a che vedere con una scelta precisa, voluta, perseguita da personaggi eccezionali, e probabilmente con problemi di adattamento. Ancora fino agli anni Sessanta una buona parte della popolazione sana e attiva poteva vivere in un silenzio quasi perfetto, interrotto solo dal rumore delle onde, del vento, o magari dal raglio di un asino. Oggi, invece, la vita di gran parte delle persone è accompagnata da un rumore continuo e desiderato, che spesso dà addirittura sollievo facendo sentire meno la solitudine (divenuta la bestia nera delle condizioni di vita), accompagnando ogni nostro momento. Ecco allora l’angoscia di un cellulare che non suona, che non irrompe a distrarci dall’insoddisfacente attività cui ci stiamo dedicando; ecco l’inquinamento musicale da cui il nostro udito è perennemente sollecitato al bar, al ristorante, al supermercato, in casa, persino mentre passeggiamo in un bosco con le cuffiette alle orecchie. Laddove gli odori si sono modificati nel corso dei secoli; laddove le superfici contemporanee da spigolose e ruvide al tatto sono divenute morbide, stondate, scivolose, lisce; e i sapori si sono fatti meno decisi e più definiti, i rumori invece di modificarsi si sono ampliati e amplificati. A un nostro antenato, probabilmente, più di tutto risulterebbe insopportabile il rumore.
Anche la sua vista, però, subirebbe uno choc: la quantità di cose che si possono comprimere in un campo visivo si è dilatata, è passata dalla compiutezza classica di una visione di natura e paesaggio (anche se con elementi naturali scatenati) all’infinita frammentazione dello sguardo che vola su una città, sulle finestre che palpitano di vite in un grattacielo, sulle baracche della periferia di una megalopoli, sul ronzio di auto che sciamano su e giù dalle infinite tangenziali dei contorni di una metropoli, sulle folle immani e indifese radunate per un pellegrinaggio alla Mecca.
Cioran sosteneva che i nostri disgusti sono solo deviazioni del disgusto di noi stessi. Ma era un filosofo, un pensatore. Chi invece ama il racconto sa che gran parte delle nostre percezioni sensoriali, a volte persino il dolore, sono non solo soggettive ma anche sociali, e influenzate dal corso della storia. Se una moda spinge le donne a sentirsi belle indossando scomodissimi tacchi a spillo, la percezione del mal di piedi che ne consegue si attenuerà in favore del piacere di sentirsi belle e desiderate. Uno scrittore non può vedere un simile slittamento sensoriale solo come una questione autoriferita; piuttosto deve tener conto del contesto in cui ogni sensazione si modifica e assume valenze collettive, non solo individuali. Solo così il suo racconto potrà soddisfare in tutti i sensi il lettore.