Camilla Baresani

Sommario

Felicità

Gennaio 2006 - l'Erasmo - Storie

Càpita che la felicità non sia un concetto definibile e univoco, proprio come non lo sono l’intelligenza o l’amore. Càpita inoltre che nell’era del relativismo si sia portati a fare distinzioni, eccezioni, postille, distinguendo così intelligenze matematiche da intelligenze intuitive, sociali da speculative, analitiche da sintetiche – per cui a ognuno è concessa l’illusione di avere un’intelligenza propria e particolare, magari incompresa o non ancora classificata. Altrettanto dicasi dell’amore, relativizzato da una serie interminabile di situazioni sociali e individuali: essendo ormai convinti che non ne esista una sola forma, ci mettiamo a sottilizzare – e così il sentimento con cui amiamo è di volta in volta fraterno o materno o paterno, oppure possessivo, magari arcaico e persino politicamente scorretto, o semplicemente erotico (quello, cioè, che nel linguaggio corrente viene definito “chimica dei corpi”).
Càpita così che anche la felicità, in sé ineffabile, si sia arricchita di ulteriori accezioni; e che sociologia e letteratura tornino utili per classificarne le variazioni di senso nel sentire comune.
A guardarsi intorno, chiedendosi cosa sia oggi questo stato d’animo tanto indagato da illustri pensatori, ci sono diverse cose da notare e, appunto, da riempirci le pagine di una ricerca su basi statistiche, ma soprattutto da registrare in quel compendio di storia sociale che è la letteratura contemporanea. Quel genere di letteratura, s’intende, dedita a mettere in versi e narrare la realtà più attuale, oltreché i singoli individui, le loro psicologie e i loro caratteri.
Càpita infatti che lo scrittore – narratore o poeta che sia – si trovi a raccontare, tra le tante sensazioni che compongono lo spettro degli umori, anche la felicità. E nel guardarsi intorno, nel chiedersi come sia rappresentabile nell’animo e nei comportamenti dei personaggi dei propri libri, osservi e si renda conto di come sempre più spesso il sentire comune intenda la felicità come un diritto e non una conquista: il diritto a uno stato d’animo eccitato e momentaneo, una sorta di violento strappo a un’esistenza ordinaria, un commettere follie tra il mito rockettaro della perdizione e un’escandescenza autolesionistica. Niente Seneca, insomma: nessuna sensazione durevole o comunque solida conquistata a suon di tempra morale. E nulla di semplice, di elementare, come la sensazione breve e leggiadra descritta dai celebri versi di Trilussa:
C’è un’Ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.
E neppure la pigra felicità, confortante nel suo quotidiano ripetersi, che troviamo nelle rime settecentesche di Giovanni Meli:
Cicaledda, tu ti assetti
supra un ramo la matina,
una pàmpina ti metti
a la testa pri curtina
e ddà passi la iurnata
a cantari sfacinnata.
Te felici!
È come se i tempi sincopati che ha assunto la nostra esistenza, perennemente interrotta da telefonate e messaggi, dall’accumulo di impegni e dall’affastellarsi di informazioni perlopiù superflue, da una brevitas necessaria a includere l’accelerazione dei cambiamenti, avessero portato anche il concetto stesso di vita felice a ridursi e concentrarsi in lampi passeggeri, inebrianti, parossistici.
Certo: una consolidata e piatta felicità coniugale, o una madre che stringe il suo bambino e lo guarda compiaciuta, o insomma la conquista di una sensazione durevole e positiva, non è per lo scrittore una situazione narrativa stimolante. Quello che si preferisce descrivere sono i momenti di crisi o di disperazione, le rotture di relazioni consolidate, le incrinature di un sentimento che pareva stabile. Ed è senz’altro più soddisfacente raccontare la ricerca di stati d’animo eccessivi portatori di felicità immaginaria, non realmente consumata, come quella presunta dal kamikaze che si fa esplodere, o quella del momento in cui una droga porta a un fuggevole stato di ipereccitazione, o l’esaltazione del branco di tifosi elettrizzati dal solo fatto di percepire la forza di appartenenza a un gruppo. Persino la vacua felicità di qualche ora dedicata allo shopping di beni inutili e costosi è, dal punto di vista narrativo, più interessante della descrizione della paciosa giornata di un saggio che abbia raggiunto una qualche forma di felicità speculativa.
In definitiva, paradossalmente, per lo scrittore quella attuale è una società piena di attrattive: è materiale letterario palpitante e servito con la migliore delle mise en place, zeppo com’è di situazioni già bell’e pronte per essere servite in romanzi e poesie. Si ha insomma la sensazione di vivere in un’epoca che pretende criteri di godimento concentrato; e tanto li pretende, tanto li sente “dovuti”, che le nuove generazioni vengono educate nell’elusione dei doveri e della forma e nell’appagamento dei desideri immediati. Come se il concetto stesso di felicità avesse subito uno slittamento, avvicinandosi a quell’area che fino a pochi decenni fa usavamo sprezzantemente qualificare “capricci”.