Camilla Baresani

Sommario

ALBERTO CAIRO e la Croce Rossa in Afghanistan

Marzo 2006 - Corriere della Sera Magazine - Interviste

“Questa sarà una grande annata. Ha piovuto moltissimo: le altre colture sono state danneggiate, l’oppio invece avrà un raccolto abbondante e di qualità. Senz’altro il migliore dal ’99, quando i papaveri li piantavano anche lungo le strade, un anno prima che il mullah Omar ne vietasse la coltivazione”.

Parliamo di droga, ospedali, cooperanti e islam con Alberto Cairo, fisioterapista piemontese da sedici anni a Kabul, dove è responsabile dei sei ospedali ortopedici della Croce Rossa Internazionale sparsi per tutto l’Afghanistan. E’ a Milano per una breve vacanza: ne approfitta per mangiare moltissimo, e guardare tutti i dibattiti televisivi per farsi un’idea su chi votare (quest’anno, per la prima volta, potrà farlo a Kabul). Oggi poi deve fare incetta di cose da portare con sé nel viaggio di ritorno. Soldi e medicinali, innanzitutto; ma anche spaghetti, scarpe, e perfino ostie: dopo la nostra chiacchierata andrà dalle parti di Piazza Duomo a farne scorta per la chiesa cattolica ospitata nell’Ambasciata italiana di Kabul.
Torniamo alla droga: “L’hashish in Afghanistan lo fumano quasi tutti, stranieri e indigeni. L’oppio no: a parte qualche madre che dà la pallina d’oppio come calmante al bambino, lo consumano soprattutto gli stranieri e gli afgani rientrati dai campi profughi iraniani e pakistani. Fino alla fine del regime talebano, questo era un paese molto chiuso alle influenze esterne: l’oppio si coltivava ma non si consumava. Oggi invece gli afgani si accorgono che la tossicodipendenza può diventare un problema anche nel loro paese, non solo nell’America decadente e fra qualcuno dei tre-quattrocento cooperanti occidentali. Iniziano ad avere un atteggiamento critico sulla coltivazione del papavero.”
Gli chiedo quale sia l’effettiva utilità dei cooperanti delle Ong (organizzazioni non governative): “Sono persone piena di buona volontà, ma spesso il problema è che restano troppo poco. Già per riuscire anche solo a capire la vita di Kabul ci vogliono alcuni mesi, e in un anno non si fa a tempo a fare quasi nulla. Molti se ne vanno quando hanno appena iniziato a costruire qualcosa, e magari quelli che arrivano al posto loro hanno idee diverse e disfano il poco che è stato fatto”.
Ma anche tra i volontari c’è chi ha più velleità che volontà. “Spesso propongono progetti assurdi, roba che ho già visto fallire decine di volte. I consorzi di ricamatrici, per esempio: l’artigianato da vendere in occidente funziona solo se è di altissima qualità, altrimenti non lo vuole nessuno. A non avere i piedi per terra sono soprattutto le volontarie, spesso convinte che per cambiare qualcosa basti mandare a scuola le donne afgane e dare internet a tutti. Sono progetti nobilissimi, ma è una buona volontà che non porta da nessuna parte. Mancano le cose basilari, ed è da quelle che bisogna cominciare. E poi molti di loro non avevano previsto la durezza della vita di Kabul: non si capacitano che la sera non ci sia niente da fare, se non appunto la tentazione della droga. Alcuni ci cascano, e poi stanno malissimo perché non sono abituati a stupefacenti così puri. Fare amicizia con i locali è praticamente impossibile; fare vita sociale con gli altri occidentali, se non impossibile è quantomeno difficile, visto che a Kabul ci sono solo tre ristoranti e chi ci mangia prende regolarmente la dissenteria. Turismo, neanche a parlarne: dopo il rapimento di Clementina Cantoni, è la stessa ambasciata italiana a sconsigliare di uscire da Kabul. Io stesso, per non correre rischi raggiungo l’ospedale facendo ogni mattina una strada diversa”.
Alberto Cairo è un bell’uomo, magro (a Kabul si mangiano soprattutto legumi e verdure), con la voce e gli occhi che esprimono una sorta di entusiasmo poco chiassoso. Mi parla del nostro ambasciatore, Ettore Sequi, che ha fatto “una cosa bellissima”: è riuscito a impiantare una piccola produzione di ottimo olio d’oliva extravergine. A parte l’olio, però, la vita di Kabul pare infernale. Lunghe estati brucianti e polverose, con la sabbia che s’insinua ovunque. Brevi inverni gelidi e nevosi. Niente sistema fognario, quindi continui rischi di epidemie. E una città di quasi quattro milioni di abitanti, costruita per ospitarne cinquecentomila, soffocata da un traffico caotico e furibondo.
L’aspetto mite e la voce suadente di Cairo si increspano quando gli chiedo cosa pensi della “gestione Scelli” della Croce Rossa Italiana. Dice che il danno d’immagine per aver fatto entrare a Baghdad la Croce Rossa con i soldati è stato una vera tragedia. “I soldati intervengono per far cadere o sostenere un governo insediato, cioè per scopi militari; noi invece siamo lì per scopi esclusivamente umanitari. L’amministrazione militare può in certe occasioni convergere con quella umanitaria, ma le due non devono mai viaggiare in parallelo. Invece ormai anche in Afghanistan si vedono arrivare nei villaggi camionette militari con lo stemma della Croce Rossa. Sono quelle dell’ISAF (le forze di sicurezza internazionali), e creano una confusione molto pericolosa, perché se io se raccolgo un talebano ferito, lo curo e basta; mentre se e lo raccoglie una pattuglia militare, oltre a curarlo lo porta in carcere e lo interroga. E così la gente comincia a non fidarsi più del simbolo della Croce Rossa”.
Gli chiedo se i suoi rapporti con Gino Strada, notoriamente poco cordiali, siano migliorati. “Preferisco non parlarne. Dico solo che Strada è bravissimo a farsi pubblicità, il più bravo tra quelli che conosca. E questo è un aspetto positivo, perlomeno dal punto di vista della raccolta di fondi. Per il resto, non ho praticamente alcun tipo di rapporto con lui. Emergency ha ospedali chirurgici che curano le ferite di guerra. Ma la guerra è finita, e di ospedali che curano le stesse cose a Kabul ce n’è almeno altri quindici. Prima c’erano più di dieci vittime da mine al giorno, adesso solo due. I problemi e le emergenze sanitarie sono diventati altri”.
I sei ospedali diretti da Alberto Cairo hanno moltissimo lavoro: hanno fornito quattordicimila protesi a pazienti che poi vanno comunque accuditi a tempo indeterminato, e curano cinquantacinquemila persone all’anno. “Solo una su cinque delle persone che curiamo è vittima della guerra. Ormai l’emergenza è la vita quotidiana: le paralisi cerebrali infantili, le deformità congenite spesso dovute all’endogamia, i dolori articolari invalidanti in un paese di contadini e donne sempre incinte, la poliomielite, la tubercolosi ossea…”. Nei suoi ospedali, Cairo dà lavoro a circa cinquecento afgani handicappati. “Perché d’accordo, ti dò una gamba nuova: ma perché diventi davvero gamba e non rimanga solo una protesi, devi anche avere dove andarci, cioè un posto e un lavoro dove poterla usare.”
La preoccupazione per la sempre più frequente commistione tra forze militari e Croce Rossa non significa che Cairo disapprovi l’intervento americano. “ Sono una persona pratica: per me qualsiasi cosa potesse far cadere i talebani era provvidenziale. Il problema semmai è che non ci sono ancora riusciti: la zona attorno a Kandahar, a sud del paese, è ancora piena di talebani, e dopo cinque anni gli americani ci stanno ancora combattendo. Il problema è che il confine tracciato nel 1893 dagli inglesi ha diviso a metà la popolazione pashtun, molto legata ai talebani. E di fatto s’è creato uno stato autonomo a cavallo tra Pakistan e Afghanistan, con forte potere di ricatto sui governi centrali dei due paesi. Senza contare che si tratta di una regione che sembra fatta apposta per le imboscate e la guerriglia”.
Di Karzai dice che è una persona piena di buona volontà, “stretta tra venti incudini e venti martelli: fondamentalisti, etnie, gruppi religiosi, americani ed europei che vorrebbero spingere per riforme più celeri… E soprattutto la popolazione, insoddisfatta perché pensava che una volta partiti i talebani i soldi sarebbero piovuti dal cielo”.
Gli chiedo se dopo sedici anni a Kabul sia riuscito a farsi un’idea precisa del carattere di questo popolo così bellicoso. “Gli afgani potrebbero risorgere e fare cose meravigliose, perché sono intraprendenti e imparano in fretta. Ma sono vittime di credenze e tradizioni che li vincolano, di leggi tribali che li frenano e li costringono a fare i contadini quando invece avrebbero la stoffa per diventare ottimi imprenditori. Il risultato è che in tutto il paese si fa una vita miserabile. Tanto che non esistono emigrati ‘modernizzati’ che tornino a vivere qui: meglio taxista a New York che medico a Kabul.”
Come mai dice che è impossibile fare amicizia con un afgano? “Per esperienza personale. Perché anche con le due o tre persone con cui ho stabilito rapporti di autentica familiarità, sono costretto a rendermi conto che non esiste un vero scambio: dopo sedici anni che vado a casa loro, non riescono ancora a considerarmi abbastanza amico da lasciarmi vedere le loro donne. Va detto che in Afghanistan nascere donna è un dispetto che ti ha fatto tua madre. Per le occidentali, poi, nutrono un disprezzo assoluto: il fatto che viaggino da sole, senza marito, già basterebbe a squalificarle. Ma poi ci si mettono anche i nostri programmi TV, che loro considerano terribilmente ‘spinti’, e che quindi li convincono che le donne occidentali siano tutte come quelle che vedono in TV.”
Ma questo famoso musulmano moderato esiste davvero o è una figura mitologica? “Esiste, certamente, però non bisogna mai dimenticare che l’Islam è una religione completamente diversa dalla nostra. Per noi la carità è una missione in sé, senza distinzioni; per il musulmano, invece, non esiste il volontariato come lo intendiamo noi: per lui è inconcepibile andare ad aiutare il prossimo indipendentemente dalla sua religione. Tant’è vero che anche gli afgani che mi conoscono da anni continuano a sospettare che io abbia un doppio fine”.
Inevitabile a questo punto chiedere ad Alberto Cairo cosa pensi della pena capitale comminata all’apostata afgano. “Il fatto che la legge coranica preveda la condanna a morte per chi si converte non è una novità. Però non mi risulta che sia mai stata applicata. Anche perché i convertiti sono reduci dai campi profughi, quindi quasi degli stranieri: un fenomeno marginale. Poi va anche detto che Abdul Rahman è stato denunciato perché voleva portarsi via le figlie, non perché è diventato cristiano. E a quel punto il giudice non poteva non applicare la legge. Ma il fatto che sia ricorso alla formula dell’infermità mentale è positivo. Per gli afgani l’importante è non essere costretti a sconfessare le regole: fatto salvo questo, sono prontissimi a mostrare il loro lato conciliante. Trovo che sia stata un’ottima soluzione, non le pare?”