Camilla Baresani

Sommario

FRIDA GIANNINI

Ottobre 2014 - Io Donna - Corriere della Sera - Interviste

È direttore creativo (o direttora, secondo la “grammatica della parità” dell’Università di Trieste) della novantenne casa di moda Gucci. È anche protagonista di The director, documentario prodotto da James Franco, che mostra i dettagli della sua preponderante vita lavorativa, condita da uno sprazzo di vita famigliare. Nel film, Frida Giannini accenna tra le righe al desiderio di arricchire la propria vita troppo sbilanciata sul lavoro, magari con un figlio. Quel figlio (anche l’uso del “maschile inclusivo” è nel mirino della nuova grammatica) è poi nato, anzi è nata: si chiama Greta e ora ha un anno e mezzo. Frida Giannini, una delle rare celebrity del mondo della moda che non si comporta in modo strambo o provocatorio, ha una responsabilità da far tremare le vene ai polsi: dalle fortune commerciali di Gucci dipende il lavoro di circa 45 mila persone, che direttamente o come fornitori lavorano per questo gigante internazionale della moda, di proprietà francese ma di produzione rigorosamente italiana. Seduta davanti a me, vestita di jeans e di splendidi accessori – Gucci, va da sé – Frida Giannini sorseggia una Coca light e racconta animatamente l’impegno decennale di Gucci nel CSR, cioè nella “responsabilità sociale d’impresa”.

In una scena di The director, compaiono i suoi genitori: la mamma insegnante di storia dell’arte e il papà architetto e comunista dichiarato. Crescere con genitori politicamente impegnati ha influito sul suo impegno nel promuovere obiettivi di responsabilità sociale?

Certo. Mi hanno inculcato senso del rispetto del lavoro e senso civico. Per questo, da quando ho assunto un ruolo direttivo nell’azienda, quasi dieci anni fa, ho impresso un grande impulso alla certificazione di responsabilità sociale, in concerto con sindacati, istituzioni e dipendenti: i temi sono quelli della sicurezza sul lavoro e delle pari opportunità. A parte l’indotto, in Italia abbiamo 3150 dipendenti, di cui 1800 donne.

Le condizioni di lavoro si riflettono sulla qualità dei prodotti?

Il welfare aziendale porta a una resa del lavoro molto migliore. Per fare un esempio, abbiamo psicologi che fanno training ai dirigenti perché sia più facile individuare dipendenti che eventualmente subiscano abusi in famiglia. E non vogliamo brutte sorprese con lavori subappaltati a fornitori che non garantiscano condizioni di lavoro in sicurezza. Soprattutto nel campo del pellame e delle concerie abbiamo contribuito a eliminare la presenza di cromo, e a migliorare i macchinari che un tempo erano molto pericolosi. Facciamo quasi 200 ispezioni ogni anno per controllare che tutto sia in regola.

Lei è favorevole alle quote rosa?

No, però ci sono ambiti in cui la meritocrazia è più difficile da realizzarsi. Per esempio nelle grandi fabbriche, dove c’è la vecchia cultura in cui operaie e artigiane hanno difficoltà a emergere, senza contare il tema della maternità di donne che non hanno aiuto in famiglia. Monitoriamo costantemente che l’equità delle condizioni e delle opportunità venga rispettata. Se io non avessi avuto l’aiuto prezioso di mia madre, avrei dovuto fare scelte diverse: probabilmente non avrei potuto permettermi di avere una figlia.

Oltre alla tutela dei lavoratori, c’è il campo della sostenibilità.

Abbiamo fatto molto anche in questo campo: il packaging di Gucci, anche quello della cosmetica, di solito molto ingombrante, è completamente riciclabile.

Gucci ha fondato nel 2013 Chime for change, una campagna che sensibilizza l’opinione pubblica e raccoglie fondi per sostenere le bambine e le donne che nel mondo non hanno accesso ai diritti fondamentali. Come funziona?

Istruzione, salute e giustizia sono i diritti negati alle donne in ogni angolo del mondo.

Ci sono paesi dove va sradicata l’idea che una donna non debba essere istruita. L’importanza del marchio Gucci, così conosciuto, unito ad altri brand, ci ha già permesso di raccogliere 6,5 milioni di dollari con cui abbiamo finanziato progetti in 86 paesi. All’inizio è stato difficile, ho dovuto fare la questuante, ma oggi l’attrice famosa, l’avvocato, l’azienda multinazionale vengono a chiederci di far parte della campagna.

Quali sono le celebrity che sono più coinvolte nell’attività di Chime for change?

Beyoncé e soprattutto Salma Hayek Pinault, che ha giocato un ruolo fondamentale nel convincere la famiglia Pinault (proprietari dle marchio Gucci ndr) a impegnarsi. Salma gioca a nostro favore con la casa madre: è una donna molto intelligente, simpatica, e veramente appassionata.

Aver avuto una figlia ha acuito la sua sensibilità sui diritti negati alle bambine?

A essere sincera, quando ho creato Chime for change non ero nemmeno incinta, ma quando ho saputo che aspettavo una femmina sono stata felice, e anche se è piccola ho cominciato a trasmetterle i valori con cui sono cresciuta, tanto che la porto spesso a trovare i bambini che vivono in una casa-famiglia.

Gucci sostiene anche Unicef. Con quali progetti?

Siamo tra le prime aziende donatrici. Abbiamo deciso di concentrarci sul tema dell’educazione, che sviluppiamo soprattutto nell’Africa subsahariana, dalla costruzione delle scuole alla formazione degli insegnanti. Ma ci occupiamo anche delle strade: quando mancano, capita spesso che le bambine vengano violentate andando a scuola mentre attraversano i campi.

C’è un fallimento della sua vita personale che le abbia dato un impulso positivo?

Il mio momento più doloroso è stato quando ho perso un bambino dopo una gravidanza che sembrava procedere bene. Non era la prima volta e ho provato un grande sconforto. Devo dire grazie al mio compagno (Patrizio Di Marco, presidente e AD del marchio Gucci, ndr), che mi ha spinto perché insistessi. Poi, la nascita di Greta mi ha ridato equilibrio ed energia.

Non aveva pensato di adottare un bambino?

Sì, ovviamente. Ma sia io sia il mio compagno eravamo in fase di divorzio. Ancora oggi, io e il papà di Greta non siamo sposati, quindi l’adozione ci è preclusa.

Se l’iter fosse stato meno difficile, oggi ci sarebbe un bambino orfano in meno?

Assolutamente sì. Come può immaginare ho molte conoscenze all’estero e di sicuro avrei potuto aggirare gli ostacoli rivolgendomi laddove l’adozione è più favorita, solo che a me piace rispettare le regole, come mi hanno insegnato i miei genitori. E ora l’arrivo di questa bambina è stato un mezzo miracolo e ho deciso di accontentarmi.

L’immagine dell’Italia nel mondo è migliorata?

No, purtroppo i nostri biglietti da visita sono aeroporti vetusti, città sporche, accoglienza pessima. Ma nell’ultimo anno ho riscontrato una curiosità positiva verso i segnali di innovazione lanciati da Renzi. Certo, il mio osservatorio è limitato al mondo dei giornalisti di moda internazionali: sono curiosi delle mosse del premier, mi fanno molte domande e si percepisce un sollievo, come se ci stessimo dando una ripulita. Prima, invece, i commenti erano molto pesanti: le pendenze penali di Berlusconi, quelle fiscali, le minorenni… gli americani si dimettono per molto meno!