Camilla Baresani

Sommario

PATRIZIA SANDRETTO RE REBAUDENGO

Aprile 2014 - Io Donna - Corriere della Sera - Interviste

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è una donna che inizia cento frasi, ciascuna con dentro un’altra interessante da sviluppare. Essere ricchi è condizione propria di diverse persone che in genere si limitano a togliersi sfizi privati, mentre lei fa parte di quella schiera di individui che hanno deciso di avere una vocazione e una missione. La sua è… (preparatevi, è una lunga lista): collezionare arte contemporanea, esporla in una fondazione appositamente creata – la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino -, portarla in giro per il mondo, aiutare giovani artisti a realizzare i propri progetti, formare ragazzi che sappiano raccontare le opere al pubblico. Infine, e soprattutto, dare la possibilità a più persone possibile, a partire dagli studenti, di avere un accesso personale, su misura, a quell mondo dell’arte contemporanea spesso non raccontato dalle scuole, in un paese che ha nella storia dell’arte e nel passato il proprio punto di vanto.

Insomma, PSRR (come con impronunciabile acronimo la chiamano i collaboratori), è la prosecutrice di quella vena femminile, collezionistica e mecenatesca, che nel secolo scorso ha visto alcune ereditiere americane fondare musei che oggi visitiamo con gratitudine e venerazione.

Lei è laureata in economia e commercio, ha lavorato nell’azienda meccanica di suo padre, si è sposata, ha due figli. Come mai a un certo punto l’arte contemporanea si è impossessata della sua vita?

Non è accaduto per caso, sono partita da una mamma che mi portava nei musei e collezionava oggetti antichi. Però il mio interesse specifico per l’arte contemporanea è nato dal nulla, anzi da un’amica collezionista, Rosangela Cochrane, una donna visionaria e anticipatrice, che mi ha portato con sé nel ’92 in un viaggio a Londra. Lì, insieme a Nicholas Logsdail, il fondatore della Lisson Gallery, abbiamo visitato decine di studi di artisti.

Incontrare gli artisti è stato decisivo?

Sì, fondamentale. L’arte contemporanea è l’unica che ti metta a contatto con chi produce l’opera, che poi è la cosa più semplice, non costa nulla ma fa la differenza: permette di fare amicizia con gli artisti e capire cosa pensano. È stato a quel punto che ho iniziato a collezionare. Negli anni 90 non era di moda come adesso, e a Torino – così come in tutta Italia – c’era carenza di musei di arte contemporanea. Benché qui fosse nata l’Arte Povera, c’era solo il Castello di Rivoli. Io però volevo condividere le opere acquistate e desideravo supportare gli artisti che non sapevano dove esporre.

Quale è stato l’incontro che le ha consentito di creare la Fondazione?

Quello con il critico e curatore Francesco Bonami, che ho conosciuto nel ’95. In quel momento lavorava per Flash Art e viveva a New York. È nato un rapporto di stima e amicizia, e mi è venuto naturale affidargli la direzione artistica della Fondazione.

Cosa la appassiona dell’arte contemporanea?

Amo le opere che parlano del presente e del quotidiano. L’arte contemporanea, se è di qualità, trasmette sensazioni e idee anche a chi non ha una preparazione specifica. Le opere non devono essere belle bensì parlare del politico, del sociale, dell’oggi. Gran parte degli artisti non si preoccupa di decorare le nostre case, ma concepisce lavori che abbiano una forza dirompente, espressiva. Il bello è che, se ti metti con un po’ di umiltà di fronte a un’opera contemporanea, puoi creare un’intesa col suo significato anche se non conosci la storia dell’arte.

Suo marito, che ha sposato una giovane laureata in economia e commercio, come ha vissuto questa sua impetuosa, travolgente trasformazione?

Ha sempre condiviso quello che facevo e ha capito che questo era un mio spazio. Siamo molto curiosi e amiamo l’arte in tutte le sue forme. Mio marito è stato per dieci anni il presidente del Teatro Stabile di Torino. Si occupa di energie rinnovabili ma quando può mi segue. Pensi che con i nostri figli non abbiamo mai fatto vacanze tradizionali, ma siamo sempre andati al seguito dell’arte, dove c’erano le mostre, le biennali, gli studi degli artisti.

Perché una fondazione e non un museo?

Ho immaginato lo spazio non come la casa delle mie opere, come fanno molti collezionisti, bensì come un luogo con due obiettivi: il supporto e sostegno agli artisti (lei non immagina la gioia che provo nel vedere un’idea che da progetto diventa opera) e la creazione di uno spazio che permettesse a tutti, a partire dai giovani,  di comprendere l’arte contemporanea.

Lei parla con orgoglio dei “mediatori culturali” della Fondazione. Cosa fanno?

Sono giovani appassionati, che provengono dall’università o dall’accademia, e che noi formiamo affinché, tramite il dialogo, creino una mediazione tra opere e pubblico. Il lavoro del mediatore e quello di chi lo forma è nell’albo delle professioni museali, benché in Italia – purtroppo – non sia ancora riconosciuto. Pensi che i nostri mediatori sono in grado di far visitare le mostre ai ciechi, e proprio pochi giorni fa ho ricevuto la lettera di una signora che ci ringraziava perché aveva visto le opere attraverso gli occhi e le parole di una nostra mediatrice.

Tra le sue iniziative c’è anche il premio Rebaudengo Serpentine Grants. A chi si rivolge?

Il premio è nato dall’incontro tra la Fondazione e la Serpentine Gallery di Londra. Si rivolge ai ragazzi nati dopo l’89, perché quell’anno, con la caduta del muro di Berlino, ha cambiato la Storia. Sono ammesse opere di ogni disciplina artistica, anche la letteratura. Ho dato vita a questo premio perché vorrei che la Fondazione restasse un luogo dedicato alla creatività giovanile, che non si ferma alle collezioni dei nomi più celebri. I vincitori ricevono 15.000 euro, e chiediamo loro di investire quella cifra nel produrre un’opera che poi verrà esposta nella Fondazione.

C’è poi il capitolo della “costume jewellery”, l’altra sua collezione spettacolare . Di che tipo di gioielli si tratta?

Sono “gioielli fantasia”, vale a dire bigiotteria la cui storia particolare mi ha appassionato: sono stati creati in America negli anni ’30, durante la crisi della Grande Depressione. Sono falsi, però sontuosi, allegri, fantasiosi, eccentrici. Molto grossi e molto colorati. La bellezza di questi gioielli è che sono i più democratici al mondo, ognuno è stato prodotto in milioni di copie. Io mi vesto sempre in modo piuttosto rigoroso, uso il bianco, il nero o tuttalpiù il grigio, ma con questi gioielli mi lascio andare. Quando penso cosa indossare parto dai gioielli, soprattutto collane e spille, e poi arrivo al vestito. Per me è diventato un gioco, a maggio tiro fuori le ciliege, a Natale i pinetti. Adesso che ci sarà un’inaugurazione per me molto importante, la mostra Stanze alla fondazione Olbricht di Berlino, sto già pensando a quale gioiello della collezione indosserò.

Che tipo di mostra è quella di Berlino?

Esporremo, dal 2 maggio al 21 settembre, opere della nostra collezione legate al concetto di stanza. Sarà una mostra molto importante: è la prima volta che inauguriamo a Berlino, e cade in un weekend speciale in cui tutte le gallerie di arte contemporanea inaugurano una mostra. È una grande festa dell’arte contemporanea. Al piano terreno esponiamo lavori di Maurizio Cattelan, Thomas Demand, Giuseppe Gabellone, Dominique Gonzales-Foster, Sherrie Levine, Sharon Lockart, Cindy Shermann, Kiran Subbaiah e Andrea Zittel. Al primo piano, invece, ci saranno 200 dei miei gioielli falsi.

Si riesce a guadagnare collezionando arte?

No, è praticamente impossibile, anche perché oggi c’è una competizione agguerrita, da Dubai a Pechino, con nuovi collezionisti che hanno mezzi inarrivabili. Direi che si può andare in pari.

Lei è appena tornata da Los Angeles dove ha visitato molti studi di artisti. Un artista che ha lo studio in Lucania ha speranze?

Certo. Internet ha cambiato tutto. La creatività è ovunque e oggi un artista può proporre le sue opere abitando ovunque.

 

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Per ulteriori informazioni sulla mostra Stanze/Rooms di Berlino: http://www.fsrr.org/mostre/stanzerooms/