Camilla Baresani

Sommario

SERENA VITALE, l’essere scrivente

Ottobre 2021 - HUB - Corriere del Ticino - Interviste I miei articoli

È spassosa e non dimentica mai di evidenziare aspetti umoristici e paradossi, dimodoché anche quando parla o scrive di letteratura russa, di poeti e scrittori passati nelle efferatezze e nelle tragedie del Novecento, finisce per strapparti un sorriso. Non esce di casa da mesi, perché non le piace andare in giro con la “museruola”, così ogni giorno fa una passeggiata nel suo bosco privato: fragole, lamponi, un melograno e un ciliegio, i limoni, e persino una betulla “con un bellissimo tronco bianco” portata dalla Russia e cresciuta sulla terrazza al sesto piano di un condominio milanese. Vive con un gatto, Ginevro, che, questo si è scoperto solo in un secondo momento, è maschio anziché femmina. Serena Vitale è la più importante slavista italiana, definizione che però è straordinariamente riduttiva. Se le appioppi il più generico appellativo “intellettuale”, inorridisce e dentro di sé ti manda al diavolo. “Sono un essere scrivente” dice, a chi cerca di definirla. Oltre non avere rivali nelle traduzioni letterarie dal russo, oltre a essere promotrice della pubblicazione di capolavori della letteratura russa e ceca, oltre alla carriera accademica che ha prodotto torme di ex allievi adoranti – “la cuvée di Napoli: studenti eccezionali” -, Serena Vitale è autrice di libri di culto, romanzeschi benché non siano veri e propri romanzi, libri che hanno creato attorno al suo nome un consistente gruppo di adepti. Il bottone di Puškin, La casa di ghiaccio, A Mosca, a Mosca!, Il defunto odiava i pettegolezzi sono alcuni dei suoi titoli imperdibili. Quando le chiediamo se preferisca tradurre o scrivere la risposta è: “Se si tratta di Mandel’štam, allora preferisco tradurre”. Osip Mandel’štam l’ha spinta a fumare tre pacchetti di sigarette al giorno. La responsabilità va condivisa tra il poeta vittima delle purghe staliniane e Roberto Calasso, proprietario e direttore editoriale dell’Adelphi, purtroppo mancato poche settimane fa. Aveva insistito perché Serena si occupasse di una nuova traduzione di Conversazione su Dante. Meno di cento pagine di osservazioni fulminanti e di ineguagliabili notazioni sulla poesia e su Dante, che si mangiano le tonnellate di carta pubblicate per i settecento anni dalla morte del Sommo Poeta. 

“Non sono una scrittrice, sono un topo d’archivio” sostiene Serena Vitale, per completare il proprio ritratto. “Sono una fattografa. Per esempio, ho scritto un libro su Maiakovskij, Il defunto odiava i pettegolezzi. Quando ho iniziato a studiarlo, ho capito che era una persona indifesa come un gattino, e mi sono detta ‘Mo’ a chi lo lascio?’, e mi è scattata la voglia di lavorare a questa specie di indagine”. 

Essere scrivente, fattografa e traduttrice impareggiabile: “La cosiddetta traduttologia non esiste, non ci può essere una scienza del tradurre come non ci può essere una scienza dello scrivere. Una parola ti può venire dopo sei giorni o sei mesi oppure arriva nella notte, frequenta i sogni. Penso che mi abbia aiutato la musica. A Brindisi, dove sono nata, studiavo in uno stanzino adiacente al salotto dove mia sorella suonava il piano e papà dava lezioni di violino. Stavo tutto il giorno con la musica nelle orecchie e questo mi ha dato l’idea di cosa sia l’armonia, di come la parola si debba aggiustare nella partitura del testo. L’unico consiglio che darei ai traduttori è di leggere tutta la letteratura italiana, da Dante e Boccaccio in poi, e di studiare l’armonia, o almeno il solfeggio, imparando a dividere la frase: tac-ta-tac-ta… Mi hanno chiesto varie volte di insegnare in master di traduzione, ma che gli dico, prendetevi un papà musicista? Difficile”. Le chiedo quali autori ha preferito tradurre. “Nabokov, Mandel’štam e Brodskij”. E come mai non ci mette la Cvetaeva? “Perché credo che porti male”. Per via della sua vita disgraziatissima, un campionario di orrori dell’epoca staliniana? “Perché è una grande ma credo che a me porti male. Ormai ne sto lontana. Sono molto terrona in questo, sono superstiziosa. Ogni volta che ho preso in mano la Cvetaeva o mi è caduto addosso uno scaffale, o è venuto il terremoto, oppure mi sono storta una gamba. Probabilmente è autoidentificazione, ma ormai il mio periodo Cvetaeva è passato. Mi ha assorbito completamente: lei era grandissima ma poteva distruggere le persone. Mandel’štam nonostante la tragedia della sua vita, mi tranquillizza. Del resto, è finito anche il mio periodo Puskin. Tradurlo era una meraviglia, dava felicità”.

Ma come è iniziata la prodigiosa carriera letteraria di Serena Vitale? Sì, certo, le basi, l’eccellente ginnasio di Brindisi e uno zio dalla sterminata biblioteca, ma poi l’incontro con Angelo Maria Ripellino, professore universitario di lingua e letteratura russa, l’autore dell’indimenticabile Praga magica. È tra l’altro a casa sua, che Serena Vitale ha conosciuto il suo primo marito, il poeta Giovanni Raboni. “Ripellino, il mio maestro, aveva la bellezza del barone siciliano. Elegantissimo, si preparava a lungo le lezioni, ed era un incantatore. Eravamo desolati quando finiva la lezione. Allontanarmi da lui, andare a Milano, per me è stato fondamentale. Il fascino della persona e della sua scrittura era tale che sarei diventata un’inutile replicante. L’ultima volta che l’ho incontrato era a letto, moribondo, e parlava in tutte le lingue. Un fenomeno di glossolalia: in francese, greco, greco antico, turco… Ero basita. Dopo le lezioni ci invitava a casa, ci incoraggiava a scrivere poesie, era una persona assolutamente irripetibile. Uno di quegli incontri che ti segnano la vita”. A Ripellino, Serena Vitale deve anche la passione per la letteratura ceca, per Praga, e in fin dei conti anche l’incontro con il suo terzo marito, il pittore Vladimír Novák. Una storia sorprendente come solo a lei possono capitare, di un amore interrotto dall’invasione delle truppe del Patto di Varsavia nel ‘68 e ripreso magicamente (appunto, Praga magica), dopo la Rivoluzione di velluto, nel 2000. Ora la pandemia e la serie di lockdown incrociati li ha nuovamente divisi. Non si vedono da un anno e mezzo: “Ce l’abbiamo nel DNA, la separazione forzata. Sembra romantico ma non lo è”. A Praga, Serena Vitale aveva cominciato ad andare nel ’66, per i corsi estivi frequentati dagli studenti di Ripellino. “Ho conosciuto i migliori scrittori cechi, e a un certo punto anche Kundera: abitava in una viuzza del centro dirimpetto alla polizia politica. Era già perseguitato. Gli chiesi: ‘Come mai Milan abiti proprio qui?’ E lui: ‘Loro mi spiano e io spio loro’. Questo era il tipo. Adorava la mistificazione e corre voce che quando si è sposato per la seconda volta abbia mandato al suo posto un amico e lui abbia fatto da testimone. Adesso vive a Parigi ma è irraggiungibile, si è cancellato come se avesse usato una gomma, non vuole che si sappia più nulla di lui. Ricordo che quando lo traducevo e gli telefonavo per chiedergli cosa volesse dire con una certa parola, rispondeva ‘Ma metti quello che vuoi Serena, ti do cart blanche’. So che è tornato di nascosto in Cechia, dove non lo amano molto mentre adorano Havel, che è stato cinque anni in prigione. Kundera stentano a capirlo. Aveva avuto un brevissimo passaggio nel partito comunista, necessario se voleva essere pubblicato. E non gli viene perdonata la sua apparente mancanza di nostalgia della Patria”. Tra i suoi libri, quale preferisce? “Il valzer degli addii, che ho tradottoÈ costruito in modo perfetto: una quadripartizione, un quartetto. Con Milan parlavamo spesso di musica perché il padre era un compositore e lui stesso un finissimo musicista”. E riguardo alla Praga contemporanea, ovviamente quella pre-Covid: “È diventata molto turistica e faticosa, ma non sono di quelli che dicono ‘Come era meglio quando era tutto buio e grigio’. Dopo la primavera di Praga, il periodo della normalizzazione è stato terribile. Peggio della vita sovietica a cui ero abituata. Era calato il gelo”. Impossibile non chiedere a Serena Vitale del suo secondo marito, il fascinoso Dmitri Nabokov, figlio unico di Vladimir e della moglie Vera Slonim. Minimizza: “Solo sulla carta siamo stati sposati per tre anni: un matrimonio a Las Vegas, doveva essere il ’92 o ’93. Entri in una stanza, parte la marcetta nuziale, la prima persona che passa viene presa come testimone. Più che altro ero curiosa, ho voluto sperimentare la scena dei film con matrimonio a Las Vegas”. Sì, ma era anche bellissimo, e poi cantante lirico, e pilota di auto da corsa, e traduttore poliglotta dei libri del padre: “Però anche quando vidi il figlio di Pasternak gli avrei baciato i piedi. Suonai alla porta, mi aprì ed era spiccicato al padre, vestito come lui. Io soffro di questa cosa, di innamoramenti letterari. Anche Dmitri era il ritratto del padre. L’ho conosciuto quando andai a trovarlo per chiedergli aiuto per la traduzione di Il dono. Viveva nella villa che era stata di sua madre, a Montreux. Finché era stato vivo Vladimir, lui e Vera avevano vissuto in albergo. Nabokov diceva che quando si arriva a una certa età o i domestici sono quelli dell’infanzia oppure è meglio l’albergo. A Montreux non succedeva niente. C’era solo il festival jazz e le persone che incrociavi per strada e ti dicevano ‘Bonjour, Madame’ oppure ‘Bon après-midi, Madame’, o ‘Bonsoir, Madame’. Una noia mortale. Dmitri aveva una passione per le Ferrari. Aveva corso e si era bruciato la sommità della testa in un incidente. Quando ero a Montreux, per controllare le traduzioni, dopo venti minuti gli veniva una faccia stravolta e mi diceva ‘Serena non ce la faccio più’. Mentre le barche e il mare… Insieme siano stati in Sardegna, ma non su uno yacht come avrei voluto io, era un prototitpo che poteva scoppiare da un momento all’altro”. Era ricco? Eredità e diritti d’autore? “Non proprio. Dmitri aveva uno stranissimo fiuto per l’immobiliare e la sua ricchezza derivava dal fatto che, facendo delle tournée come basso, certo non un ruolo decisivo, si dedicava a comprare case che poi rivendeva guadagnandoci moltissimo. Suo padre, invece, diceva che non avrebbe mai comprato una casa che non fosse quella natale di Pietroburgo o la tenuta di Vyra”. E com’era quel palazzo, che immaginiamo pieno di nannies e di istitutori? “Quando il comunismo stava torbidamente finendo, sono stata con Dmitri a vederlo. Era ancora diviso e in una parte c’era un ufficio necrologi, in un’altra un’agenzia immobiliare. Dmitri veniva continuamente fotografato, sembrava che fosse arrivato lo zar Nicola I”. C’è poi la questione di L’originale di Laura, l’ultimo abbozzo di romanzo di Nabokov, pubblicato molto postumo, nel 2009. In realtà, una serie di caratteri e scene scritti su schede: “Ero contraria alla pubblicazione di quello scartafaccio. Avrebbe potuto venire un grande romanzo ma andava ancora scritto. Un giorno, non stavamo più insieme da anni, Dmitri mi ha chiamato e mi ha chiesto: ‘Tu cosa ne pensi?’. Doveva decidere se farlo pubblicare. ‘Malissimo’, gli ho risposto. Ma poi ha ceduto, suppongo, a causa delle pressioni della sua agente americana”.

Serena Vitale è sempre sorprendente. Prima di lasciarci ha una domanda per me: “Qual è la canzone che ti piace di più, in questo periodo?”. Ci penso e rispondo: “Musica leggerissima”. “Colapesce e Dimartino! Deliziosa. La ascolto sempre prima di andare a letto… Però… Però hanno fatto uno sbaglio terribile”. Oddio, quale, non me n’ero accorta: “Silenzio assordante. Gli volevo scrivere, come si può usare un ossimoro così scontato?”. Mannaggia, da quando me l’ha detto anch’io vorrei scrivere a quei due. Cambiate il testo! Ingaggiate Serena Vitale!