Camilla Baresani
Indirizzo: Bioparco, Villa Borghese, Roma
Telefono: 063608211
Sito web: http://www.bioparco.it/
Prezzi: €15

Sommario

Roma – Self service del Bioparco, Villa Borghese

Febbraio 2006 - Il Sole 24 Ore - Domenica - Ristoranti Lazio
Nel venticinquennale del Codex Seraphinianus, pluricelebrata enciclopedia visionaria dell’artista Luigi Serafini, siamo andati con l’autore a visitare la fonte d’ispirazione di questa fantasia stralunata, fatta di architetture impossibili e metamorfosi di uomini, animali e oggetti. Fonte – ma forse sarebbe più giusto dire incubatrice – che si trova a Roma, a Villa Borghese, in particolare in quello che è stato eufemisticamente ribattezzato “Bioparco”. Una visita che consigliamo a tutti, perché quel poco che rimane del glorioso zoo di Roma è già di per sé un interessante esempio di arte visionaria. Inaugurata nel 1911, la struttura fu concepita e progettata da un maestro del disegno paesaggista, Carl Hagenbeck, che abolì le sbarre delle gabbie utilizzando profondi fossati a mo’ di barriera naturale, e ambientò i recinti in un misto di architetture di ispirazione coloniale e di ricostruzioni dell’habitat originario di ciascun esemplare: rocce, dirupi, iceberg, crateri – tutto ricreato in cemento. C’è poi la parte preferita da Serafini, quella dell’ampliamento progettato nel ’35 da Raffaele di Vico sull’onda di suggestioni borrominiane, dove si trovano la grande voliera (30 metri di diametro, una sorta di cupola geodetica in anticipo sui tempi) e il rettilario.
La visita è quanto di più triste si possa immaginare: molti animali sono morti e non sono stati rimpiazzati; altri, per esempio i cammelli, sono di una bolsaggine che fa stringere il cuore; alcune costruzioni, ormai vuote, sono pericolanti e assediate da erbe e strane forme vegetali che ti fanno di colpo sentire dentro una scena di Alla ricerca dell’arca perduta. Le tigri sono separate dai visitatori tramite un vetro blindato inserito in una finta arcata di roccia: le poverette, cercando di evadere dalla noia mortale del recinto, prendono a zampate il vetro e disegnano con i piedi infangati furiose traiettorie che ricordano l’action painting di Jackson Pollock.
Ma la cosa più straniante è lo stravolgimento didattico che ha subito l’intero zoo. In considerazione del fatto che i bambini hanno ormai a disposizione ore e ore di suggestivi documentari a colori, quindi presumendo che l’ambientazione “dal vero” possa lasciarli indifferenti, si è pensato di rendere allettante la visita trasformandola in un percorso didattico con contorno da bambinopoli: pupazzetti di cartone, bandierine, impronte di orso disneyanamente posticce. Nella casa che ospita gorilla e scimmie, dietro a un separé, sono esposte “immagini educative” visibili solo ai bambini accompagnati da un adulto: mostrano il cadavere di un gorilla bruciato dai bracconieri. L’arredo ricorda quello delle portinerie d’estate: piante da appartamento dentro vasi di plastica, con un contorno di cortecce che dovrebbe “fare jungla”. Poco più in là, nella zona degli scimpanzé, una segnaletica simil-gossip racconta con ammiccamenti da Eva 3000 le stravaganze della specie. Infuria l’audio-visivo: per entrare nel rettilario (il luogo più caro a Serafini, per via dei coccodrilli onnipresenti nel Codex) si deve passare da una saletta tipo Alitalia, dove si viene sottoposti alla visione obbligatoria del documentario “Furti di natura”, condotto dagli ubiqui Patrizio Roversi e Susy Blady. Informati sulle mascalzonate di trafficanti d’ogni risma (pelli, avorio, corna…) si accede infine ai coccodrilli: ma più che vederli ce li si rappresenta già in forma di borsetta Kelly e di scarpa con tacco da dominatrice. Chiede Serafini: perché non utilizzare invece le immagini del gruppo scultoreo del Lacoonte, e ricordare quanto di buono hanno fatto i rettili per l’arte? L’incontro con gli animali non dovrebbe essere anche esercizio estetico? E poi: come hanno scritto Esopo, Fedro e Lafontaine, negli animali si proiettano vizi e virtù dell’uomo, marchiando di metafora la loro esistenza come un codice genetico; nella gazzella del Cantico dei cantici, nella civetta del tetradramma ateniese, nei leoni bretoni, nell’aquila americana, troviamo raffigurati agilità, forza, regalità: perché non raccontare queste storie anziché solo quelle dei soprusi?
Con la testa in balìa di simili tetri pensieri, afflitti da tutte le malefatte compiute dall’umanità sulla pelle degli animali – non ultima quella di segregarli a Villa Borghese –, ci dirigiamo infine verso l’oggetto di questa rubrica, cioè il bar-caffetteria-self service del bioparco, con annesso negozio di pupazzi di peluche. E’ una costruzioncina nuova, arredata in stile pseudoesotico, tinteggiata con una sbrodolatura di verde. Il cibo è da mensa decorosa. La pasta al forno e i maccheroni al sugo, l’omelette al prosciutto e la finanziera di vitello, il formaggio e l’insalata, le verdure saltate (scarola, patate arrosto), il vino o la birra: con 15 euro si fa un pasto non meno dignitoso di tanti altri della nostra vita, magari più pretenziosi. Intorno a noi, genitori con figli e qualche interessante coppia clandestina. Dall’esterno arrivano di tanto in tanto i ruggiti delle tigri siberiane, che da un recinto all’altro si chiamano, come se facessero la conta.