Camilla Baresani
Indirizzo: Piazza Solferino 16 H, Torino
Telefono: 011 535948
Sito web:
Prezzi: 60€

Sommario

Torino – Vintage 1997

Aprile 2005 - Il Sole 24 ore - Domenica - Piemonte Ristoranti
A Torino, a maggio, c’è la Fiera del libro, e plotoni di intellettuali invadono la città. Città che già di suo ne detiene un alto tasso, vuoi per la gloriosa presenza di case editrici poco generaliste, vuoi per esser sede della celebre scuola Holden.
Impegnati a guadagnar poco, gli addetti ai lavori del mondo dei libri non sono animali da ristorante chic, e nelle lunghe serate dei giorni della Fiera li trovi sparpagliati nelle trattorie cittadine, intenti a tessere le proprie strategie letterario-editoriali o semplicemente a commentare con più o meno gioia successi e insuccessi altrui. Negli anni scorsi anch’io ho battuto le principali tratto-osterie della città, senza però trarne grandi soddisfazioni. E l’unico ristorante che avessi visitato, quello della fondazione Sandretto Re Rebaudengo, mi aveva lasciato un ricordo-non ricordo, nel senso che ancora oggi saprei descrivere l’arredo in stile morgue, ma già cinque minuti dopo esserne uscita non serbavo più alcuna memoria del cibo mangiato. “A Torino si è sempre mangiato male”, mi hanno detto i torinesi cui quest’anno mi sono rivolta per farmi consigliare un buon ristorante – e, anzi, alcuni mi suggerivano locali che avrebbero desiderato veder pubblicamente smascherati. Ma io, che nei giorni della Fiera dovevo lavorare (anche se suona strano chiamare lavoro la presentazione di un libro, proprio o altrui che sia), cercavo un posto in cui mangiar bene: non volevo arrivare tra gli stand con lo sguardo bovino di chi ha ingurgitato pietanze grevi, o con l’insoddisfazione tignosa di chi s’è beccato una fregatura.
Così mi sono messa a consultare le guide, e alla fine, vincendo il fastidio che m’ispirava il nome, ho scelto di prenotare un tavolo al Vintage 1997. Quando il gestore decise – suppongo nel ’97, l’anno della pecora Dolly – di dare questo nome al ristorante, la parolavintage non era stata ancora usurata dall’attuale cancan modaiolo ed evocava la vendemmia o qualcosa che fosse d’epoca, e non – come adesso – vacue ossessioni da fashion victim incallite.
L’interno del ristorante richiama atmosfere un po’ polverose da inizio Novecento: due grandi sale con pochi tavoli, la tappezzeria di broccato rosso, i tendaggi abbondantissimi, le stampe di cavalli da corsa, la nicchia col vasone para-Ming. E’ tutto rigorosamente falso, o meglio: la cosa più autentica è il segno del calcio dei camerieri sulla porta a molla che introduce in cucina.
Quest’atmosfera volutamente demodé è molto gradevole, perché non allineata agli stili usati degli arredatori dei ristoranti di tono. A Milano, o a Roma, per esempio, di locali simili non se ne trovano: dovunque negli ultimi dieci anni ci sia stato l’intervento di un architetto d’interni, i cliché adottati sono di tutt’altro genere. Al Vintage, del resto, anche i clienti hanno una curiosa aria da passato recente: alcuni tavoli sono occupati da signori che sembrano strappati alla celebre Marcia dei Quarantamila, mentre i gruppi famigliari hanno l’aria benestante della borghesia anni Settanta, e dopo mangiato, quando esci, ti aspetteresti di veder parcheggiata nella piazza una manciata di Giulie Super e Fiat 130.
Il menu, invece, è dei nostri tempi: i piatti appartengono perlopiù alla tradizione piemontese, ma sono descritti con attuale e rigorosa pignoleria nel precisare con quali materie prime siano preparati. E’ un menu generoso, di carne e di pesce, che dà soddisfazione già solo alla lettura; una di quelle carte che ti costringono a scelte dilanianti e tormentose. Decidendo di saltare il secondo sono riuscita ad assaggiare cinque antipasti sui venti offerti. Il vitello tonnato, finalmente preparato comme il faut, cioè con carne arrostita e salsa senza maionese; la squisita insalata di “gallina bionda di Villanova” su un letto di spinacini, con melograno e robiola di Murazzano; la sublime battuta di carne di Fassone (il manzo di razza piemontese, dalla carne magrissima) con ovetto di quaglia crudo: tre piatti squisiti e secondo me anche leggeri. Meno leggeri, ma altrettanto irrinunciabili, i cardi tardivi gratinati con fonduta di toma dell’Elva. Mi hanno convinto un po’ meno le acciughe al verde su patate d’Entracque, per l’eccessiva predominanza del sapore di prezzemolo. Non richiesto, come preantipasto, avevo ricevuto anche un bicchierino (sì, persino qui è arrivata la moda dei “bicchierini”) di “tomino elettrico” affetto dal medesimo problema, l’eccesso di salsa verde. Tra una portata e l’altra, ritmata dal suono della porta a molla che sbatte ogni volta che passa un cameriere, si ha modo di cogliere qualche nota stonata, che però non lascia quasi traccia nei ricordi: l’odore di cucina in sala e un viavai di piatti quadrati e d’altre strane geometrie, incongrui in un simile locale. Ma sono appunto sciocchezze, a fronte di pietanze che danno grandissime soddisfazioni. Dei due primi che ho assaggiato, per esempio, uno è indimenticabile: i tajarin all’uovo con burro d’alpeggio e “parmigiano delle vacche rosse” sono i migliori che abbia mai mangiato, grassi ma non unti, saporiti ma delicati, in pratica non un semplice piatto ma un vero e proprio ossimoro gastronomico. I quadrotti (ravioloni) di gallina bionda nel sugo d’arrosto mi sono parsi meno equilibrati, un po’ troppo sapidi. Tutti i succitati piatti, inclusi quattro bicchieri di vino (nell’ordine: Langhe Nebbiolo, Barbera d’Asti e Barbaresco), hanno prodotto un conto di appena 63 euro.
Contenta e appagata sono tornata per la cena. Questa volta, accanto a me, c’era un tavolo di celebri poeti milanesi con noti industriali piemontesi. Curiosa miscela: chissà cosa si saranno detti!